"Ti ha dato di matto il cervello?!", gridò Gwen nel bel mezzo del corridoio. Fece la linguaccia a tutti quelli che si girarono a guardarla e tornò a fissarmi con aria severa e gli occhi spalancati. Alzai gli occhi al cielo e svoltai l'angolo, con lei alle calcagna.
"Cosa mi stavi dicendo prima?"
"Non cambiare discorso. Non puoi andare a lavorare di notte in un bar in periferia a New York, Ele. Sei fuori di testa"
Diedi una scrollata di spalle e le tenei aperta la porta dell'aula. "Perché no?"
"Me lo stai davvero chiedendo?", replicò allargando le braccia.
"Senti, è un modo per fare esperienza e conoscere qualcuno. Ed ho bisogno di soldi. Non vedo dove sia il problema", ammisi con semplicità. In realtà ero piuttosto spaventata da quello che avrei dovuto affrontare quella sera, ma cercavo di non pensarci.
"Il problema è che... ". Gwen si lanciò un'occhiata intorno e si ricompose, abbassando il tono della voce. "Il problema è che", sussurrò, "non puoi lavorare in un bar a New York frequentato da gente che va lì per ubriacarsi. Per non parlare del fatto che poi dovrai percorrere le strade in periferia a notte fonda"
"Non sono particolarmente entusiasta neanche io, ma ormai è fatta. E poi comincio stasera, magari dovremmo aspettare prima di giudicare", osservai prendendo posto a lezione.
"Non c'è nulla da aspettare. Ho visto il tizio che ci lavora, e fa paura", dichiarò, scuotendo la testa come a scacciare il solo pensiero.
"Andiamo, è solo uno stupido lavoro. Perché dobbiamo discuterne tanto?"
"Okay allora", concluse alzando le mani in segno di resa. "E lavoro sia"
Le alzai i pollici con un sorriso. "Questo è lo spirito giusto"
Gwen sembrò rabbuiarsi. Distolse lo sguardo e fece finta di osservare dei ragazzi che avevano appena messo piede in aula. "Già, a proposito di spirito giusto, prima ti stavo dicendo che... "
"Buongiorno ragazzi!", esclamò la voce del professor Marsley. Gwen si zittì e non continuò la frase. Mi fece segno che me lo avrebbe detto più tardi, perciò prestammo entrambe attenzione alla lezione.
Una volta varcata la soglia dell'aula, tra la calca di gente, non perse neppure un secondo e riprese quello che stava dicendo. "Ho fatto una cosa, okay?", mormorò, stranamente agitata. La guardai di sottecchi soffocando le risate nel vederla così ansiosa.
"Che tipo di cosa?", risi.
"Non c'è niente da ridere. E' una cosa seria, Ele, davvero"
"Oh... Okay", dissi, smettendo all'istante quando vidi la sua espressione seria. "E' una cosa grave?"
"No, no, è solo che... ", farfugliò, non trovando le parole da usare per esprimersi al meglio. "Ricordi la prima lezione con il professor Marsley?"
"Uhm... Si, certo"
"Ecco... Ricordi che ci aveva parlato di sua moglie? Che anche lei lavorava qui?"
Ricollegai tutto e sorrisi stupidamente. "Ricordo che ci sei rimasta male perché era sposato", osservai con sarcasmo.
"Si, ma non è questo il punto", disse con durezza. "Ma devi seriamente prometterti di non arrabbiarti o dare di matto"
"Pensi che sia una che da di matto?", replicai, non sapendo se scherzasse o dicesse sul serio. Come avrei dovuto prendere un'affermazione del genere?
Gwen non rispose ed evitò appositamente la domanda. Ci rimasi male, ma tentai di nasconderlo. "Prometti"
"Okay Gwen... Che c'è?", la tranquillizzai, cominciando a preoccuparmi anch'io.
"La moglie del professor Marsley è una psicologa"
"Uhm... ", sussurrai, socchiudendo gli occhi per capire dove volesse arrivare. O forse ne avevo una vaga idea. Non sapevo perché ma avevo lo stomaco in subbuglio per l'agitazione di sapere che cosa stava per dire, anche se non volevo saperlo. "E quindi?", domandai, fingendo tranquillità.
Scrutò la mia espressione a fondo, come a cercare segni che potessero suggerirle che avessi capito. Poi, timorosa, spiegò: "Presta servizio a tempo pieno come psicologa qui in università per chiunque volesse. E' a disposizione anche degli studenti. Gratuitamente. Così ho pensato... Sai, così, solo per provare... che avremmo potuto andarci, qualche volta"
Aprii la bocca, ma non ne uscì alcun suono. "Io e te dalla psicologa insieme a fare che?", chiesi conferma, non capendo bene la situazione.
Gwen alzò le spalle e gettò un'occhiata dietro di me, sminuendo le prossime parole. "Che avresti potuto andarci"
"Che avrei potuto andarci?"
"Si", ripetè in modo incerto, guardandomi come se si aspettasse lo scoppio della terza guerra mondiale.
Cercai di rimanere pacata e non dire nulla, per non darle questa soddisfazione. "E perché tu hai pensato che io avessi bisogni di una... ", mi schiarii la voce, distogliendo lo sguardo, "psicologa?"
Si guardò intorno e mi prese per il braccio, praticamente trascinandomi contro la mia volontà lungo tutto il corridoio, finchè non svoltammo un angolo e ci ritrovammo in una parte di sede che non conoscevo e non avevo mai esplorato. Ci eravamo fermate davanti ad una porta, che portava incisa, su una targa: "Dottoressa Hatkins".
"Non devo dirtelo io", disse, rispondendo alla mia domanda precedente.
Cominciarono a sudarmi le mani, e me le sfregai nervosamente sui pantaloni, scuotendo categoricamente la testa. Il cuore aveva cominciato a battere incessantemente. "No, Gwen. No. Sul serio"
"Perché?", chiese esasperata, non capendo il motivo per cui fossi tanto ostile per una cosa del genere.
"Perché no. Non ne ho bisogno e sarà solo una perdita di tempo. Non voglio. Hanno già provato a convincermi in tutti i modi perciò è meglio se tu la smetta a partire da... "
"Posso aiutarvi, ragazze?", domandò una voce femminile dietro di me. Gwen distolse lo sguardo e lo puntò alle mie spalle. Chiusi gli occhi e cercai di mantenere la calma. Girarmi era l'ultima cosa che volevo fare, ma non volevo neanche sembrare maleducata. Mi presi qualche secondo per stamparmi un grandissimo sorriso falso in volto e voltarmi.
La donna era a dir poco stupenda. Indossava una naturale leggerezza che le dava l'aria di una persona davvero gentile. Gonna a tubino, tacchi e camicetta, ed il sorriso più confortante e rassicurante che avessi mai visto. I capelli erano scuri, tagliati a caschetto, e gli occhi di un azzurro intenso ma delicato. Guardò prima me, poi Gwen, e sorrise raggiante ad entrambe, aspettando sapientemente una risposta in modo molto calmo e pacato.
"In effetti si... ", intervenne subito Gwen, prima che io potessi smentire tutto. "Si ricorda di me?"
La dottoressa la scrutò con gli occhi socchiusi, poi realizzò. "Sei la ragazza che è venuta ieri per la sua amica?", domandò cercando conferma.
Imbarazzata, Gwen mi lanciò un'occhiata micidiale, che mi obbligò a sorridere. "Già, be'... eccoci qui", esclamò fingendo entusiasmo, che non ottenne allo stesso modo da me.
La donna mi guardò, e quell'occhiata mi entrò nelle ossa. Mi sentii come se mi stesse guardando dentro gli occhi, come se mi stesse giudicando, e stesse formulando pensieri su di me che a me non sarebbero piaciuti. Sapevo fosse davvero scortese da parte mia, ma distolsi immediatamente lo sguardo dal suo. Gwen mi diede una gomitata e sorrise alla dottoressa.
"Io sono Emma. Volete una tazza di caffé?", domandò dopo attimi di assoluto imbarazzo. Ma lei sembrava sempre molto pacata e tranquilla, il sorriso raggiante e gli occhi sorridenti.
"Certo, magari. Veniamo da un'ora di psicologia. A proposito, suo marito è un'insegnante fantastico", disse Gwen sorpassando la soglia della porta che la dottoressa Hatkins aveva aperto. Esitai prima di entrare, ma il suo sorriso in qualche modo mi diede coraggio, quindi seguii Gwen titubante e sentii la porta chiudersi alle mie spalle.
"Me lo dicono in tanti. Sapessero com'è fuori dalle aule che ama tanto, quando non mette a lavare i vestiti e mi tocca fare mille lavatrici per esser sicura che si lavi"
Per fortuna era di spalle e non potò vedere Gwen diventare tutta rossa e soffocare le risate a crepapelle. Ci preparò il caffé e ci porse una tazza fumante per uno, sorseggiando la sua e sedendosi sulla sedia dalla sua parte di scrivania. "Grazie", mormorai, tentando di placare l'agitazione.
"Ricordatevi i vostri nomi. Gwen e... ?"
Mi rigirai la tazza tra le mani, tremando come una foglia. "Ele", mi schiarii la gola, gli occhi bassi.
"Hai degli splendidi occhi verdi, Ele. Dovresti vantartene un pò di più", osservò con gentilezza. Capii perchè lo avesse detto, e mi sentii in colpa per non averla guardata negli occhi. Alzai lo sguardo, ma con mio stupore non ebbi timore.
"Lo dico anche io", commentò Gwen.
"Siete qui per una chiacchierata tra donne? Sono aperta a qualsiasi tipo di conversazione", si fece più vicina e sussurrò, "anche dal punto di vista fisico"
Mi scappò un sorriso, ma lo repressi. Non mi sentivo per niente dell'umore giusto per ridere in quel momento. "In tutta sincerità, non so perchè Gwen mi abbia portata qui perciò, scusi per il disturbo, ma credo sia ora che ce ne andiamo e la lasciamo lavorare"
Emma si ritrasse, ma non sembrava affatto sorpresa dalla mia uscita. "Chi dice che io non stia lavorando?", replicò, fissando i miei occhi.
Aprii la bocca, ma davvero non sapevo che dire. Conoscevo quella donna da cinque minuti e mi aveva già spiazzata. Deglutii e mi contorsi le mani per l'agitazione. "Io... devo andare. A... lavoro. Si... ", farfugliai, "mi dispiace molto, non posso... "
Continuai a dire cose a caso finchè, tra un saluto e l'altro di fretta, mi chiusi la porta alle spalle. Chiusi gli occhi per un momento e sospirai. L'unica cosa che volevo era pensarci.
Tornai in dormitorio praticamente correndo, con la costante paura che Gwen o chiunque altro avesse potuto riportarmi là dentro. Passai tutto il pomeriggio a studiare e riempirmi la testa di cose che non avrei ricordato di lì ad un'ora perchè ero troppo concentrata a pensare a ciò che era successo ore prima, anche se stavo effettivamente studiando per non pensarci.
Quando Gwen rientrò in camera non mi rivolse la parola, né mi salutò. Era del tutto impassibile. Come se fossi invisibile e lei fosse da sola. Sapevo fosse arrabbiata, ma forse neanche mi importava.
Verso le sei e mezza cominciai a prepararmi e, dopo essermi infilata un paio di leggings comodi ed una felpa oversize ficcai dentro la borsa le chiavi della stanza ed il telefono ed afferrai dalla sedia della mia scrivania il giacchetto.
Mentre riflettevo se salutare o no Gwen, si alzò dal suo letto e si appoggiò all'uscio della porta con le braccia incrociate e l'espressione dura, mentre in corridoio mi passò accanto Shelsey. Una delle peggiori per quanto riguardava la tranquillità nel dormitorio. Tornava in camera tutte le sere ubriaca ed i suoi schiamazzi, insieme a quelli di qualche ragazzo, riecheggiavano per tutto il corridoio tutte le notti. "Guarda dove metti i piedi, tesoro", biascicò sorpassandomi, quando inciampò sulle mie scarpe.
"Okay. E' la tua vita, porca troia, lo so, e forse non avrei dovuto insistere così tanto, ma non voglio vederti stare male", disse Gwen a braccia incrociate, lanciando un'occhiata schifata a Shelsey che si chiudeva in camera.
Alzai le spalle, nascondendo la sorpresa nel non vederla poi così arrabbiata. "Mi dispiace per prima, sul serio. Ma non me la sento. Questo lavoro servirà a distrarmi, ne sono sicura. Non preoccuparti troppo, d'accordo?"
Abbozzò un sorriso, ma non era per niente convinta. "Vuoi che ti accompagni?"
La liquidai con una scossa di testa ed un sorriso e mi addentrai nel buio della sera. Fuori dalle mura del campus sembrava tutto più pauroso e desolato. Passai davanti al mini market e Dylan mi salutò dalla vetrina che dava sulla strada. Ci ero stata altre volte, e non era poi così male.
La scritta a neon del Passion illuminava quel pezzo di strada completamente deserta. Era già buio. Controllai l'orologio: mancavano ancora due minuti, ma l'idea di trastullarmi nel bel mezzo della periferia di New York mi allettava meno che entrare in una specie di bar per alcolizzati e drogati. O forse no. C'ero stata solo qualche minuto, e magari non era neanche poi così male come sembrava.
Presi un respiro profondo, mi guardai intorno, e poi entrai. Spinsi la porta a vetri e notai che nel locale c'era già qualcuno. Per lo più ragazzi, forse della mia età, ed alcune ragazze sedute insieme ad un tavolo, che mi lanciarono un'occhiata accusatoria.
Dietro il bancone c'era una ragazza. Quando mi vide andarle incontro posò uno dei bicchieri che stava asciugando e mi sorrise. Ricambiai imbarazzata e nervosa allo stesso tempo.
"Sei la tipa che è venuta ieri? Brosh mi ha detto che saresti stata perfetta", mi chiese, prendendo un bicchiere pulito e riempiendolo di un liquido trasparente.
"Be'... Mi fa piacere. Ele", mi presentai, porgendole la mano.
"Siamo in periferia, dolcezza, rilassati. Non so da dove vieni, ma qui te la cavi con un cenno del capo", replicò con semplicità. "Comunque io sono Shery. Vieni di qua", continuò, indicando lo spazio dietro al bancone dove si trovava lei.
Feci il giro e la raggiunsi. "Dai questi a me", disse, prendendo il mio giacchetto e lo zaino e rifugiandosi nel retro per posare tutto.
Il ragazzo a cui Shery aveva versato da bere mi stava squadrando da capo a piedi mentre sorseggiava il suo drink. Distolsi lo sguardo appena in tempo per vederla tornare con un sorriso raggiante.
"Per stasera ti faccio vedere un po' come funziona, okay? Stammi vicino e fa tutto quello che ti dico, non dovresti avere problemi per oggi. In mezzo alla settimana è piuttosto tranquillo". Annuii e la seguii mentre mi mostrava il locale.
Shery mi spiegò che cosa dovevo fare per quella sera. Lavare i bicchieri, servire i drink più semplici e a volte portare le ordinazioni ai tavoli. Rimasi dietro al bancone per fare quello che mi diceva, mentre servivo i clienti che mi si sedevano davanti man mano che arrivavano. Brosh, il proprietario, quella sera non c'era. Verso le nove e mezza arrivò un'altra ragazza. Mi disse velocemente che si chiamava Celia ma rimase per lo più nel retro, ed a volte aiutava Shery con i tavoli.
Alle dieci arrivò un gruppo di ragazzi e si sederono ad un tavolo. Tutto il locale si girò a guardarli. Alcuni di loro sembravano ubriachi, e le urla e gli schiamazzi mi fecero venire il mal di testa dopo cinque minuti. Riempii per la quarta volta il bicchiere ad un tizio che era lì almeno da due ore e sembrava decisamente già andato, mentre Shery posò un vassoio pieno di bicchieri vuoti sul bancone e si sedé, sospirando per la fatica.
"E' sempre così... caotico?", le chiesi. Lei alzò le spalle e si scostò una ciocca di frangetta dagli occhi.
"Anche peggio", rispose, guardando il tavolo di ragazzi che attiravano l'attenzione in tutto il locale.
"Non puoi fare nulla?"
"Sono di qualche università qui vicino. Se gli dico qualcosa le voci si spargono, e questo posto va in banca rotta", commentò. "Comunque di solito stanno poco e vanno a fare baldoria da qualche altra parte. Qui come procede?"
"Tutto okay. Per ora nessun bicchiere rotto", scherzai, cercando di risollevarle il morale vedendola così stanca.
"Siamo solo all'inizio, dolcezza", mi consolò ironicamente, poi si allontanò di nuovo e ricominciò il suo via vai tra i tavoli.
Alle undici passate il tizio davanti a me finalmente pagò il conto e se ne andò barcollando, così passai lo straccio bagnato sul bancone e cominciai a lavare tutti i bicchieri che si erano accumulati nel corso della serata.
Ero stanca, ma solo quando non ebbi più nulla da fare mi resi conto che per tutta la serata non avevo pensato a nulla. Forse non sarebbe durato tanto, ma fin quando avessi potuto distrarmi mi sarebbe servito.
Okay, forse l'ambiente non era dei migliori, ma Shery era simpatica ed andavamo d'accordo. E poi avevo bisogno di soldi.
Qualcuno si buttò improvvisamente su uno degli sgabelli davanti al bancone e mi risvegliò dai miei pensieri. Alzai lo sguardo, e feci automaticamente un balzo all'indietro.
Mi ritrovai attaccata alla parete, immobile.
Tyler mi guardò negli occhi, ma niente sembrò scattare. Erano vitrei ed annebbiati, e sembravano persi. Ci mise un po' a realizzare che io ero davanti a lui, ma neanche in quel momento sembrò sorpreso.
"Che c'è, hai visto un fantasma?", biascicò, reggendosi la testa con entrambe le mani.
Mi distaccai lentamente dalla parete e lo fissai a lungo. I capelli erano leggermente spettinati dal vento, le occhiaie spaventosamente violacee e la pelle pallida. Non aveva esattamente l'aria di uno che stava bene.
Qualcosa in tutto quello mi provocò una fitta al cuore. Non era così che avevo immaginato di trovarlo. E non avevo di certo pensato che mai l'avrei fatto, ma in quel momento era lì davanti a me e, nonostante dopo tutto quel tempo mi sembrasse così irreale, realizzai che forse gli ultimi mesi non erano stati una passeggiata neanche per lui.
Ma mi obbligai a ricredermi quasi subito: non volevo provare pena per lui. Non volevo provare niente per lui. Volevo solo disperatamente riuscire a fare finta che non fosse più niente per me. Finsi indifferenza e ripresi ad asciugare i bicchieri,con le mani tremanti ben nascoste alla sua vista.
"Dammi qualcosa da bere, per favore. Qualcosa di forte", ordinò, la testa tra le mani e gli occhi chiusi.
Rivolsi lo sguardo a Shery, che aveva appena chiuso la porta dopo che il gruppo di studenti caotici se ne era andato. Sospirò e si lasciò cadere su una sedia.
"Forte?", ripetei, titubante. "Sei sicuro di farcela?". Non sapevo esprimere che cosa provavo per lui in quel momento, qualsiasi tipo di sentimento fosse, ma di certo non sarei stata così cieca da non vedere che non era nelle condizioni di reggere più alchol di quanto sicuramente già gliene circolasse in corpo.
"Chi sei, mia madre?", sbottò con rabbia, rialzando la testa e guardandomi negli occhi. Mi sentii il cuore in gola a quell'occhiata, ma evidentemente non fu' lo stesso per lui.
"Okay", deglutii. Mi girai, dandogli le spalle, e lessi uno ad uno le etichette di tutte le bottiglie per capire quale fosse quella con il grado alcolico più basso.
Diamine, ma come si fa a bere una cosa del genere? Nulla che fosse sotto i trenta. Ne presi una da ventinove e gliene riempii metà bicchiere. O forse qualcosa di meno.
Ma quando mi girai, Tyler stava dormendo. La fronte poggiata sul bancone e le mani tra i capelli. Non so perché, ma mi sfuggì un sorriso. Ero tentata di svegliarlo, quindi allungai una mano, ma la ritrassi subito.
Non volevo. Forse così poteva stare meglio. Qualunque cosa gli passasse per la testa, avrebbe potuto smettere di pensarci. Conoscevo bene quella sensazione: era il motivo per cui mi trovavo lì.
Il fatto che stessi cercando di far stare meglio lui un po' mi infastidiva. Era lui che aveva lasciato me. Ed in quel momento niente di niente sembrava avere senso. Però ero sicura di una cosa: non volevo vederlo così. Ero arrabbiata, ma non egoista.
Shery mi raggiunse e lanciò un'occhiata a Tyler. "Non è arrivato cinque minuti fa?"
Diedi una scrollata di spalle e gli intimai silenziosamente di abbassare la voce. Lei si sedé accanto a lui, su uno degli sgabelli, e lo scrutò a lungo, scostandosi le ciocche di frangetta che le coprivano gli occhi piccoli e scuri. "E' carino", sentenziò dopo un po'.
Evitai quell'allusione e cercai di non pensarci. "Dobbiamo svegliarlo?"
"Lascia stare. Se non si sveglia da solo con tutto questo casino è andato"
Si allontanò di nuovo e non la vidi più per più di un'ora. A mezzanotte passata il locale sembrava ripopolato, a quanto pare quella era l'ora di punta in un bar a New York come quello. Tyler non rialzò più la testa. A volte si muoveva, o si lamentava nel sonno, ma neanche tutta quella confusione e le persone che si sedevano accanto a lui sembrarono svegliarlo.
Averlo lì, anche se non esattamente presente, mi faceva sentire più... al sicuro.
Lo odiavo.
Era una sensazione familiare quando lui era nei paraggi, ma io non volevo che lo fosse. Eppure, sapendo che era lì sembrava tutto più facile.
Quando si fece l'una di notte le gambe cominciarono a chiedere pietà, e gli occhi minacciarono di chiudersi da soli. Tutti i miei clienti se ne erano andati ed era rimasto solo Tyler, nella stessa posizione da almeno mezz'ora. I tavoli erano tutti vuoti e Shery stava finendo di pulirli. Quando finii di mettere a posto i bicchieri le diedi una mano per fare prima, ed insieme a Celia pulimmo il pavimento e mettemmo le sedie sopra i tavoli.
"E lui?", chiese quando avemmo finito tutto.
"Sveglialo, dolcezza. Tra dieci minuti siamo fuori di qui", mi ordinò Shery porgendomi il giacchetto e lo zaino, e rifugiandosi nel retro per cambiarsi insieme a Celia.
Feci il giro del bancone e mi ritrovai nervosamente vicino a Tyler. Non ero entusiasta all'idea di svegliarlo, ma dovevamo chiudere e non poteva dormire lì.
Gli posai delicatamente una mano sulla spalle e lo scossi, cercando di essere il più delicata possibile. Alzò la testa e si massaggiò le tempie, guardandosi intorno con gli occhi socchiusi.
Si girò di lato e mi vide li accanto a lui, quando un accenno di sorriso si fece largo tra le sue labbra pallide. Si mise le mani nei capelli ed impiegò un po' per rendersi conto di dove eravamo, guardandosi intorno. "Merda", imprecò sottovoce, alzandosi di scatto dallo sgabello.
Mi allontanai improvvisamente da lui e lo vidi barcollare e tentare di reggersi in piedi. Era spaventoso vederlo così, e pensare al perché si fosse ridotto in quel modo.
Quando ritrovò la stabilità Shery e Celia erano tornate e stavamo facendo i conti finali degli incassi della serata. "Accompagnalo fuori. Domani alla stessa ora, okay?", mi chiese Shery facendo un cenno con il capo verso Tyler. Lui sembrava così perso che neanche sembrò accorgersene.
Annuii e mi incamminai verso l'uscita, aprendo la porta e aspettando che Tyler mi raggiungesse.
"Prima le donne, no?", strascicò con uno strano sorriso in volto.
"Prima le donne... ", sussurrai, salutando distrattamente Celia e Shery ed uscendo per prima. Mi ficcai le mani nelle tasche del giacchetto per proteggermi dall'aria gelida e mi guardai intorno nel marciapiede, spostandosi al passaggio di un tizio ubriaco che mi venne incontro.
Tyler chiuse la porta e, come se non esistessi, prese a camminare tranquillamente in mezzo alla strada deserta, le mani nelle tasche dei jeans e lo sguardo sul cemento.
Cercai di tenermi al suo passo, ma era completamente assente.
Non sapevo cosa dire.
Forse non aveva voglia di parlare, ma mi rendeva nervosa essere lì, nel bel mezzo di New York, da sola con lui a notte fonda.
Come ero arrivata lì? Solo una settimana prima le cose cominciavano a sembrarmi di nuovo più semplici dopo tanto tempo e, come se lo facesse apposta, tutto era tornato come prima. La differenza stava nel fatto, però, che non avevo la più pallida idea di come fossimo arrivati lì insieme.
Quando svoltammo l'angolo e ci ritrovammo sulle tracce del campus il silenzio era diventato insopportabile. Mi sfregai le mani e lo guardai camminare come se fosse solo. "Quindi ti sei dato all'alchol?", domandai al vento. Le mie parole sembrarono risvegliarlo. Si girò e si accorse che ero proprio lì accanto a lui.
Scrollò le spalle con gli occhi fissi nei miei. "Ti interessa?"
"Non dovrebbe?"
"Non avevo un valore per te, giusto? Almeno, fino a ieri. Quindi perché dovrebbe interessarti se bevo due fottuti bicchieri di vodka?", sbraitò con rancore. La sua voce riecheggiò in tutta la strada.
Distolsi lo sguardo con amarezza e chiusi gli occhi. "Che cosa ti aspettavi?", ringhiai. "Che sarebbe stato tutto come prima dopo che... "
"Dopo cosa?", mi incitò furiosamente, fermandosi in mezzo alla strada.
"Niente. Dopo niente", mormorai stringendo i denti, ricacciando indietro le lacrime. Distolsi gli occhi dai suoi, ma lui mi guardò a lungo lì, nel bel mezzo del buio, ed avrei voluto sapere così tanto che cosa stava pensando.
"Fanculo' ", borbottò dopo un po', riprendendo a camminare.
Avrei voluto parlare, dire qualsiasi altra idiozia, ma avevo paura che potesse sentire il tremore nella mia voce ed il nodo alla gola non me lo permise. Quindi feci finta di niente e mi strinsi nella mia giacca.
Arrivammo nel campus immersi nel silenzio. Senza neanche chiedermi nulla, Tyler mi accompagnò fino al dormitorio femminile. Prima di entrare esitai. Mi sentivo in colpa per poco prima, anche se sapevo che non avrei dovuto.
Mi girai e lo trovai a fissarmi con le mani nelle tasche e le spalle contratte. I suoi occhi erano diffidenti e scontrosi, eppure non sembrava volersi schiodare da lì.
"Uhm... ", sussurrai, schiarendomi la gola, "buonan... "
"Come stai?"
"Cosa?"
"Ti ho chiesto come stai", ripetè, neutrale, assicurandosi di non lasciar trapelare nessun tipo di emozione nella voce.
"Perché me lo stai chiedendo?"
"Non posso?"
"Si, ma... E' strano", ammisi riluttante.
Tyler rise, poi si guardò intorno. "Ti rendi conto della situazione in cui ci troviamo? E tu trovi strano che io ti chieda come stai?"
Già. Detta così mi faceva sembrare davvero un'idiota. Eppure niente mi sembrò ironico, perché in quel momento l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era la rabbia nei suoi confronti che stavo provando. "La situazione in cui ci troviamo, eh? E non ti sei mai chiesto perché?", sibilai socchiudendo gli occhi.
"Non immagini neanche quante volte", sussurrò, la voce a malapena udibile.
"E cosa hai capito?"
Sembrò sul punto di dire qualcosa, ma ci ripensò ed abbassò la testa per un istante per non mostrarmi la sua espressione. Quando la rialzò era freddo e scostante come prima. "Siamo arrivati al tuo fottuto dormitorio. E' tardi, va' a dormire", sentenziò.
Annuì, come per rendere vere le sue parole e sforzarsi di crederci. Mi rivolse un'ultima occhiata e poi si allontanò, avviandosi verso la parte opposta del campus.
Weeeeeee. Non mi uccidete, lo so, non aggiorno da una vita. Ma la scuola mi ha sommerso e passo le mie tristissime giornate a fare compiti. Comunque, finalmente fanno una conversazione di senso compiuto. Wow. Come crescono in fretta. E niente, come pensate andrà avanti la storia? Film mentali e ipotesi assurde qui sotto, ci vediamo nel prossimo capitolo! :)