9 - Consolare

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Layla

Namira mi ha raccontato di aver perso i genitori in un rogo divampato nelle campagne dove si stanziava il loro campo nomadi. Quando il cugino le diede la tragica notizia, non riuscì a lasciarsi andare alle lacrime. Ebbe un blocco emotivo, forse dettato dallo shock. Riversò il suo dolore nei colpi inferti alla membrana del tamburello, a cui si aggrappò mentre, poco distante, si svolgevano le esequie.

Namira mi ha raccontato che quel giorno, immersa in una distesa di borragine, solo la natura andalusa poté scorgere il suo cuore sanguinare, come fosse prigioniero di rovi altrettanto spinosi.

Namira mi ha raccontato che, sin dall'età di otto anni, si è spesso chiesta perché il destino abbia scelto di ri­sparmiarla: in quegli istanti, mentre sua madre e suo padre morivano, lei si trovava al mercato di Traina con una prozia. Le sue perplessità si sono dissolte solo quando ha iniziato a frequentare il Fleurs e ha conosciuto me.

Namira mi ha raccontato che, da bambina, senza gli incisivi centrali, ero davvero molto carina e allo stesso tempo le facevo tenerezza. Faticavo a masticare il cibo, e lei, che aveva cinque anni in più, sarebbe stata pronta a togliersi i denti pur di permettermi di mordere qualcosa. Da quel momento siamo diventate come sorelle e ha gettato nell'oblio la convinzione che, anche da orfana, non avrebbe mai più potuto essere felice.

Namira mi ha raccontato che di rado si è lasciata andare al pianto. È successo da adulta, ma non mi ha mai ri­velato nulla di quelle volte. «Segreti miei» mi diceva, accennando un sorriso cordiale.

Namira mi ha raccontato milioni di altre storie, ma non si è mai curata di spiegarmi come si faccia a vivere anche una sola ora senza di lei.

È trascorso un giorno da quando se n'è andata e io, qui, dietro il mio camper, non faccio altro che vomitare.

Il dolore è la causa.

Un dolore interiore, troppo forte da sopportare.

Rivivo ciò che è successo a mezzogiorno, come fotogrammi di un film senza fine. Accarezzavo la carrozzeria scura dell'auto che trasportava la bara, incapace di accettare che fosse davvero accaduto. Solo poche ore prima, mi aveva chiesto di suonare il tam­burello e, stando alla sua espressione intensa, rapita, sembrava più che cosciente. Forse non avrei dovuto la­sciarla sola con Ollie. Forse, se fossi rimasta al camper, avrei potuto impedirlo.

O forse no.
O forse nulla.
Davanti alla morte i "forse" non esistono.

Il cielo si staglia nelle mie iridi, lacrime silenziose non cessano di fluire, così come esonda fortemente la voglia di raggiungere lei e lui quanto prima.

Perché non trovo il coraggio di suicidarmi?

Me lo chiedo ogni minuto.

Prima, circondata da tutti gli artisti del Fleurs e affiancata dal nostro anziano capo, che parla­va incessantemente, esprimendo l'idea che la perdita di Namira, dopo quella del mio bambino, fosse inaccettabile, ho pensato per un momento di uccidermi impiccandomi all'ultimo acero visibile da qui.

Ho poi rinunciato a quest'idea per due motivi: primo, si tratta di un luogo in vista e qualcuno potrebbe intervenire per salvarmi; secondo, immagino l'impiccagione come una pratica molto dolorosa, e la sofferenza fisica mi spaventa. Che debole del cazzo che sono, vero?

Con un lembo della maglietta mi asciugo la bocca, intrisa di vomito acido.

Mi sento fiacca, tremo, la pelle del viso è appiccicosa.

Sopraffatta dalla nausea, appoggio le spalle su una lamiera della mia vettura. Ansimo, con gli occhi ancora sgranati e il cuore che batte all'impazzata, mentre stringo il tamburello al petto. Mi illu­do che possa ancora trattenere Namira qui sulla Terra. E invece no. Non posso. Perché chi supera il confine della vita va via per sempre e non si fa più sentire.

Sbagliano quelli che dicono che i morti trovino il modo di comunicare con noi. È solo una magra consolazione o il vano tentativo di ridurre il senso di distacco. Io, la dolce risatina del mio bambino, non l'ascolto da quel momento infausto. E ora dovrò fare a meno persino di quella della mia migliore amica.

«Anche tu, Mira» bisbiglio quasi con rabbia, annaspando tra le lacrime. «Anche tu mi hai abbandonata. Ave­vi detto che non lo avresti mai fatto. E invece... e invece mi hai lasciata sola a vagare in questo tunnel di di­sperazione.»

Mi piego sulle ginocchia, soffocando i singhiozzi sformati tra le cosce. Il respiro è così corto da lacerarmi i polmoni. «Qui non c'è spazio per la luce. E non ce ne sarà mai.»

Neppure il piccolo momento commemorativo organizzato da Ollie ed Ernest, che si è svolto poco dopo la partenza del suo corpo per Siviglia, è riuscito a placare, anche solo per un attimo, il dolore che serpeggia dentro di me.

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