Capitolo 1

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Michael
(20 anni)

Armeggio con la stretta cintura dei miei jeans logori, sporchi e borfi. Anthony Mitchell ha organizzato una festa, e non c'è niente di meglio di rilassarsi bevendo un pò di shot. Sono appoggiato al muro, e ad ogni persona che passa il terrore mi percorre. Cerco di scacciare tutto con una mossa furtiva e mi sistemo la cresta arruffata. L'odore d'alcool a volte mi da sui nervi, ma non c'è modo migliore per divertirsi un pò e lasciare tutto alle spalle almeno per una notte. Una tizia bionda, con un vestito striminzito e un'aria da ubriaca mi passa accanto, mostrando tutte le sue curve così maledettamente sexy. Mi salgono in mente pensieri pervertiti, e vedo che non ne compromettono solo la mente. Vago per la stanza, alla ricerca di una birra, qualcosa di più fievole. Presto scolo tutta la bottiglia e mi ritrovo completamente sdraiato sulla poltroncina del salone macchiata di caffè imperlato di sudore. Sopra di me è seduta una tipa che non vuole andarsene. È a cavalcioni, e per poco non affondo la testa nel suo esagerato seno per la mia stanchezza. Solitamente non sono solito di addormentarmi nel bel mezzo di una delle più grandi feste della città, con mille invitati e musica assordante. Ma oggi sono così, distrutto dalla fatica del giorno. Finalmente sono riuscito a trovare un lavoro, tra le sbronze e le settimane nullafacenti. Niente di che, giusto qualcosa per pagare l'affitto del mio appartamento che ormai non tocco da quando ho scoperto che mia madre ha lasciato casa. È stato un colpo basso, ma alla fine non è stata la sua partenza a rovinarmi la vita. Anzi, se non è stata presente tutti questi anni quando avevo veramente bisogno di lei, non vederla per il resto della vita mi rende anche felice, se questa che provo può essere veramente chiamata felicità. Cerco di divincolarmi dalla mora che non vuole lasciare il mio bicipite scolpito. Le sue mani lasciano brividi fastidiosi percorrendo la scia delle cicatrici. Stropiccio il naso e mi strattono violentemente, fino a quando la tizia è costretta ad indietreggiare per paura che le potessi fare del male. Esco dalla stanza, madida di sudore e alcool, e mi dirigo fuori, dove nessuno ferma la mia libertà, dove posso veramente sentirmi libero. Comincio a correre, come facevo da bambino. Ogni giorno sento quelle ombre, sento ancora che qualcuno è dietro di me, mi osserva, mi segue. Ed è una cosa veramente straziante. Percorro velocemente il viale, per paura che qualcuno mi possa afferrare da dietro. Quando avevo dieci anni mio padre mi avvertiva sempre.

"Vedi di farti un pò di muscoli o non avrai nemmeno la forza di correre".

Non gli diedi ascolto, mi voltai come se il suo consiglio fosse una rude offesa, perché in realtà lo era. Tutti riuscivano in qualche modo ad offendermi, anche involontariamente. E quella scarica di energia che non voleva andarsene, mi comportava solo più problemi. Cominciai ad ingrassare perché in quel periodo per me fu l'unica via d'uscita. Non volevo essere ribelle, ne scontroso, volevo solo essere accettato per quello che ero. Ma nessuno mi capì, e mi dovetti arrendere.

Rallento la corsa, e cammino lungo il sentiero che porta verso l'appartamento. In questi giorni ho girovagato per diverse case, spostandomi da letto a letto, ma non ho mai avuto il coraggio di rientrare a casa, per indagare sulla partenza di mia madre. E di certo non lo farò proprio ora. Se ha voluto lasciare tutto, la decisione è sua. Infilo le mani sulle tasche posteriori dei jeans. La sbronza si sta facendo sentire, così mi costringo a sedere su di una panchina, per cercare qualche aggrappo solido, che mi dia la forza di continuare.

Megan
(19 anni)

"Ti prego, torniamo".

La mia voce è flebile come quella di un uccellino a cui è stata spezzata un'ala.

"Non se ne parla, ti farà bene assaporare per un momento quest'aria fresca!".

Mi scappa una risatina sorda.

"Proprio pulita" dico ironicamente mentre passiamo davanti ad un cassonetto per i rifiuti indifferenziati.

Sheldon mi scruta con lo sguardo, cercando il mio, per poi scoppiare in una forte risata. Sono costretta a tapparmi la bocca con la mano, per non farmi contagiare. Ma il mio sguardo diventa cupo, quando noto qualcosa di nero, un'ombra, passare davanti a un auto, quasi volesse raggiungerci silenziosamente. Strattono la giacca di Sheldon violentemente, quindi è costretto a farmi voltare verso di lui, per prendermi il volto tra le mani.

"Ci sono io, tranquilla".

Già dall'infanzia, lui sapeva tutto di me. Siamo cresciuti insieme, in quello schifo di luogo, dove tutto era nero, e a 18 anni hanno deciso di lasciarci andare. Ero sull'orlo delle lacrime appena lasciai quel posto, ma non di tristezza, bensì di gioia.

"Piccola, pronta ad andare?"

Sheldon entrò dalla piccola e bassa porta della mia stanza, tanto che ci si dovette abbassare per entrare. I suoi occhi celesti splendevano alla luce mattutina di quei pochi raggi che si insinuavano dalla finestra, e i suoi ciuffi neri gli ricadevano in volto. Era un quadro, un perfetto quadro. Tutte le mie amiche, fino alla mia partenza, hanno sempre pensato che tra me e Sheldon ci fosse qualcosa, un feeling detto tra noi. Ma non fu così. Appena lo vidi varcare la porta del l'orfanotrofio la prima volta che entrò, era talmente terrorizzato che mi ci volette un secondo per ricordare le sensazioni che si provano la prima volta sapendo che abiterai quel posto per il resto della tua infanzia e adolescenza, e capii che saremmo andati d'accordo, ma niente più.

"Andiamo" dissi contenta appena chiusi le valigie. E insieme varcammo quella che fu chiamata, fino ad allora, la "mia" stanza e la "mia" casa. Quando uscimmo definitivamente dal cancello, scoppiai in un pianto drammatico che risuonò per tutto il vicolo, e Sheldon fece lo stesso e ci avvolgemmo in un abbraccio confortante. Ma da quel giorno niente fu più lo stesso, niente fu più "normale".

"Megan! Megan!".

Mi ritrovo sdraiata su di una panchina. Sheldon è accanto a me, e mi avvolge un braccio intorno alla vita, quasi per protezione. È l'unico che è riuscito e riesce in qualche modo a proteggermi da tutto, da lui, da me stessa. Mi alzo delicatamente, portandomi una mano alla testa.

"Cosa...cosa..dove...?".

La confusione fa spazio tra i pensieri, offuscandoli del tutto.

"Sei svenuta ed ho dovuto accasciarti sulla panchina".

Il suo respiro è affannato, quasi avesse paura che mi fosse successo qualcosa.

"Scusami".

Mi viene quasi involontario, per un motivo a me sconosciuto parlare così apertamente.

"È che, è tutto così...brutto".

Scoppio a piangere, e mi irradio del profumo di Sheldon, appena poggio la testa sul suo petto, ancora ansimante. Sento le sue lacrime bagnarmi la nuca, e continuamo a piangere in silenzio, come due fratelli a cui è stato tolto tutto tranne il loro legame.

Spazio autrice: scusate il ritardo è che per scrivere mi ci vuole molta ispirazione ed ora che l'ho trovata riuscirò ad aggiornare di più. Spero vi sia piaciuto. Aggiornerò il più presto possibile. Baci :)

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