La nuova casa di Vivian è per terra su una collinetta del Green-Wood Cemetery, a Brooklyn.
Su una lapide bianca ci sono incisi il suo nome, il suo cognome, la data in cui l'ho avuta tra le braccia per la prima volta e quella in cui l'ho persa per sempre.
Sotto mio marito ha voluto che incidessimo "Il cielo non è un limite all'amore", che gli sembrava più sentita di "figlia amatissima" o qualsiasi cosa simile, frasi che ricorrono spesso sulle altre lapidi bianche che la circondano.
Sono tutti minorenni su questa collina, da bimbi nati morti a ragazzi che si sono spenti poco prima del loro diciottesimo compleanno.
La foto che abbiamo scelto è stata scattata davanti alla torta dei suoi dieci anni, felicissima per candeline a due cifre, ignara totalmente di quello che la vita ci stava per mettere davanti.
Non so se quel giorno dentro la sua testa ci fosse già il mostro, non so se fosse pronto in agguato mentre lei mi diceva di essere "la bambina più felice del mondo", e non voglio saperlo.
Ho sempre represso ogni conoscenza in più sulla malattia di Vivian, ogni dettaglio che non potesse darmi maggiore speranza mi sembrava inutile, superfluo.
Se fosse spuntata la notizia di una nuova cura, anche dall'altra parte de mondo, allora giuro che sarei stata la prima a saperlo e a fare qualsiasi cosa per permettere alla mia bambina di guarire, di star meglio, anche solo di soffrire meno.
Ma non mi importava di sapere da quanto stava male.
Noi ci siamo mossi ai primi sintomi visibili, quando ha perso l'equilibrio per due volte di fila in una tranquilla domenica mattina di primavera.
Prima non c'era niente, per quel che mi riguarda.
Mal di testa, afasia, disturbi della vista, della deambulazione o altre mille cose che mi hanno chiesto in ospedale durante l'anamnesi.
Niente, era perfetta, bellissima, felice e spensierata come ogni bambina deve essere – e meriterebbe di essere.-
Solo di recente, lo scorso autunno, Charlie mi ha proposto di "rendere il nostro dolore utile", un'altra frase ad effetto che cela qualcosa di importante.
Parlare della malattia di Vivian, parlar con altri genitori che si sono trovati nel nostro stesso incubo, con chi c'è ora, sensibilizzare sull'importanza di donare alla ricerca per il cancro pediatrico.
La sua è un'idea bellissima, è sempre in contatto con qualcuno di nuovo, ha dato forza a una famiglia del Minnesota che ha perso un figlio di tredici anni, ma io non sono ancora pronta.
Se si tratta di parlare di cancro in linea generale, di raccontare cosa è questa malattia a livello biologico allora sì; posso descriverne i sintomi, gli esami strumentali, indicare il nome di qualche medico o centro specializzato, dare una mano in questo modo è qualcosa che sono perfettamente in grado di fare, ma non chiedetemi di parlare della mia esperienza.
Non chiedetemi di raccontare a voce o su un Social Network cosa significa essere madre di una bambina malata, guardarla spegnersi, vivere ogni giorno cercando di salvare un ricordo in più illudendosi di quanto potrà farci bene dopo.
Io fatico a raccontare di Vivian sana, della bambina felice davanti alla torta del suo decimo compleanno, non chiedetemi di parlare di altro.
Thomas lo sa, e dice che farò un passo importante il giorno in cui proverò ad aprirmi con gli altri sul discorso della malattia di mia figlia; pensa che sarà l'ultimo gradino dell'elaborazione del lutto, che forse è un rivivere tutta la sua vita, prima le cose belle e poi quelle più brutte.
Chissà.
Parlo a Vivian degli altri, di tutto il mondo che ha lasciato, anche di quelle cose che non conosceva o che avrebbe avuto difficoltà a comprendere perché era una bambina.
Le parlo del suo papà, di Kelly, di Dorothy chiedendole se lei ed Eveline ora giochino insieme e siano tranquille.
Le faccio tante domande a cui nessuna voce risponde, ma ogni tanto provo a captare risposte in giro, come segnali di una sua presenza.
Ad esempio ero preoccupata per una questione di lavoro un paio di settimane fa, e non sapendo che altro raccontarle, in capace sia di andare via che di restare in silenzio, gliel'ho raccontata con i toni e i termini con cui avrei parlato ad un adulto dello stesso argomento e poi, quando ho fatto per andare, mentre accarezzavo la sua foto per l'ultima volta, ho visto un fiorellino che, potrei giurarlo, prima non c'era.
Stava lì in mezzo alla neve dell'inverno Newyorkese e mi diceva di star tranquilla, che avrei risolto tutto, che ce la potevo fare.
Stava lì a ricordarmi che Charlie aveva ragione, il cielo non è un limite all'amore.
Dalla collinetta si vedono i grattaceli di Manhattan, lo skyline di una città che non dorme mai, sempre accesa, sempre produttiva.
Si sente il rumore dei battelli sull'Hudson e posso immaginare la Statua della Libertà ed Ellis Island, le macchine sul ponte, il frastuono di un giovedì pomeriggio qualsiasi come sottofondo alle milioni di vite che si muovono per la città.
Io mi illudo che, almeno quando sono qui, il tempo si blocchi.
Che gli altri non esistano o quantomeno siano fermi e immobili mentre io soffro per un po' nell'unico posto in cui non mi vergogno a piangere, perché un po' serve anche a questo.
A scuola si studia che per i primi uomini il seppellire i morti fu un grande passo avanti, ma non so quando i cimiteri siano diventati l'unico luogo sicuro per sentirsi fragile, quello in cui nessuno potrà provare a salvarti con frasi stupide come le madri delle amiche di mia figlia.
Delle mie figlie.
Vorrei riuscire a portarci Charlie più spesso, a non venirci da sola, ma lui riesce a ricordarla così bene aiutando gli altri che trovo inutile forzarlo.
- Sono quasi le cinque e mezza, amore. Tra un po' il cimitero chiude e io devo andare a prendere Kelly al compleanno della sua amica, incontrare le altre mamme, fare una cosa normale.
Ma torno presto, mamma torna presto.-
Rassicuro l'aria, rassicuro me stessa che non mancherò più di qualche giorno da questo doloroso incontro, illudendomi che possa sentirmi ed essere tranquilla.
Spero con tutta me stessa, dal giorno in cui le ho detto addio, che se un aldilà esiste lei possa sentirmi, vedermi, rendersi in qualche modo conto del fatto che non è stata dimenticata e non lo sarà.
Perché non saprei dire a parole quanto dolorosa possa essere l'idea di mia figlia persa in un luogo che non conosce, senza di me e con la convinzione che l'abbia dimenticata e abbandonata.
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Troppo piccoli per capire
ChickLitOphelia sta cercando di sopravvivere al dolore più forte di tutti, la perdita di un figlio. La sua Vivian, dieci anni, si è ammalata ed è morta nel giro di pochissimi mesi lasciando dietro a sé la disperazione di due genitori e di Kelly, la sua so...