Zecche e monete degli Abruzzi/Cenni generali
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I.
CENNI GENERALI
INTORNO ALLE ZECCHE ED ALLE MONETE DEL REGNO DI NAPOLI DALLA INVASIONE DEI LONGOBARDI ALLA MORTE DI GIOVANNA I DI ANGIÓ.
Accingendomi ad illustrare le memorie che a mia notizia pervennero delle zecche degli Abruzzi nel medio evo, non credo opera gittata, ma quasi direi necessaria, il riandar brevemente quali monetarie officine abbiano avuto le terre della penisola italiana che il re normanno Ruggeri unì primo sotto il potente suo scettro, e quale ne fosse la durata, dalla conquista d’Italia operata dai longobardi fino alla morte di Giovanna I di Angiò; dalla quale ultima epoca prenderà le mosse il presente ragionamento.
Divisa nel 569 la parte meridionale d’Italia, invasa dai longobardi, ne’ due grandi ducati di Spoleti e di Benevento, pare che nel primo, i cui vasti confini ben si addentravano di qua dagli odierni del regno, il diritto della moneta non si esercitasse, non si potendo riguardare che tessere due preziosi piombi, l’uno da me conservato del duca Alboino che governò pochi mesi fra gli anni 757 e 758, l’altro di Teodicio che succedette nel 762 a Gisolfo successore di Alboino e tenne il ducato spoletano fino al 7731.
Ricca invece è la serie delle monete dei principi di Benevento, niuna delle quali però rimonta senz’ombra di dubbiezze oltre agli ultimi anni del secolo VIII, e propriamente al 788 quando ai beneventani Carlo Magno concedette principe Grimoaldo III figlio del duca Arigiso II, permettendogli di batter moneta purchè fregiata anche del proprio suo nome. Questa serie, iniziata dai solidi, dai tremissi e dai denari di Grimoaldo III, procede fino al cadere del secolo successivo, avendosi monete di Grimoaldo IV figlio di Ermenrico, di Sicone, Sicardo, Radelgiso e Adelgiso, nonchè denari imperiali di Lodovico II, solo o colla moglie Angilberga, e di Carlo il Calvo; per arrestarsi finalmente a Giorgio patrizio, cui si attribuisce una monetuccia di argento, che vuolsi da lui coniata quando tenne il principato per l’impero greco, tra gli anni 892 e 893. Giovandosi di alcune lettere apposte ai lati della croce potenziata longobarda sopra tremissi e solidi d’incerta origine, tentarono alcuni dotti numografi di ampliare la serie beneventana, riconoscendo in quelle sigle le iniziali de’ nomi di duchi e di principi; ma la loro attribuzione, a primo aspetto soddisfacente per qualche singolo pezzo, avuto poi riguardo alle discrepanze dei tipi, induce tale scompiglio nella serie stessa, che gli è d’uopo ritenerla basata ancora su troppo debili fondamenti.
Ucciso Sicardo nel luglio 839, Radelgiso tesoriere e Siconolfo fratello del defunto principe si contesero armata mano il possesso di Benevento; nè cessarono le ostilità che cinque anni dopo, mercè la mediazione di Guido duca di Spoleti e di Lodovico II, in forza della quale a Radelgiso restò Benevento, a Siconolfo Salerno, comechè costui pure ne’ suoi conii principe di Benevento s’intitolasse. La zecca salernitana, contemporanea alla origine del nuovo principato, stette operosa anche sotto il reggimento dei successori di Siconolfo, Pietro con Ademario, Ademario solo, Guaiferio, Guaimario I, Gisolfo. Ed è per me più che probabile che, presa Salerno nel 981 da Mansone II duca di Amalfi, ogli vi abbia improntali quei nummi di rame, sui quali sta la controversa epigrafe ch’io leggo manso victor et dvx. Riaperta poscia da Guaimario IV il 1018, quella zecca fu attiva eziandio regnante il costui figliuolo Gisolfo II, che perdette la signoria nel 1073; essa però sopravvisse alla caduta del principato poichè, innalzata Salerno al grado di capitale del ducato di Puglia, e fatta residenza di Roberto Guiscardo, del figliuolo Ruggeri e del nipote Guglielmo, vi si continuarono coniare fino agli ultimi anni del duodecimo secolo le monete dei conquistatori normanni.
La repubblica greca di Napoli, la cui antichissima zecca, se aggiustiamo fede el Sanquintino2, avrebbe riaperto verso il 663 l’imperatore Costante II allorchè passò per quella città movendo da Roma per Benevento in Sicilia, ci mostra le sue monete autonome col san Gennaro e con epigrafi greche, d’epoca affatto incerta. Gli è verosimile che il duca e vescovo Stefano I, che la governò per trent’anni dal 758 in poi, meglio che Stefano II che pochi mesi la resse nell’821, quelle vi facesse coniare che porgono le sigle s e t a’ lati della croce al rovescio del consueto busto di san Gennaro. Havvene eltresì d’improntate dal vescovo e duca Atanasio, eltre dall’imperatore Basilio I, quando negli anni 884 le sue truppe liberarono il territorio napoletano dalla irruzione dei saraceni, eltre da ultimo colla imagine di Sergio IV, seppure ad uno de’ tre successivi omonimi piuttosto non si convengano. Chiusa colla conquista normanna il 1130, questa zecca stette probabilmente inattiva quanto durarono le dinastie normanna e sveva, fino a che nel 1278 Carlo I di Angiò, trasferita a Napoli la sua sede per provedere più da vicino agl’interessi dei guelfi, la riaprì, chiamandovi gli artefici di Brindisi e di Messina, e in breve salì essa io rinomanza fra le precipue d’Italia, e rimase nel corso dei tempi la sola del regno.
S’involgono nelle maggiori incertezze le origini e le vicende della zecca di Capua, della quale ei conoscono monete di tipo beneventano col nome di san Michele protettore della nazione longobarda, altre rozzissime impresse da un Atenolfo, da un Landolfo e forse anche Landone o Landenolfo, altre su cui leggonsi combinati i nomi di Landolfo e Paldolfo, senza che possa con sicurezza determinarsi a quali principi di quei nomi deggiano ascriversi. E ve n’ha pure di uno de’ due Riccardi conti di Aversa e principi normanni di Capua nella seconda metà del secolo undecimo, nonchè di Roberto I fratello di Riccardo II, o di Roberto II che perdette nel 1150 la signoria toltagli dal duca di Puglia, Ruggeri. Che la zecca capuana, chiusa nel dodicesimo secolo, siasi riattivata nel decimoquinto da Ferdinando I di Aragona, è voce dagli storici ripetuta, ma non suffragata da documento veruno, nè da veruna incontrastabil moneta.
Non parlerò di un enimmatico pezzo di rame, la cui svisata epigrafe parve a taluni indicare la zecca di Taranto3, nella quale si coniarono bensì nel secolo XIV tornesi di Filippo principe di Acaja col castello di Tours, imitati più tardi dai Monforte di Campobasso; nè della moneta colla effigie del Batista e il nome di Teano, o di quella di un Sergio duca di Sorrento, ambedue incise nelle tavole di Salvatore Fusco4, ma con sì trascurato disegno che, senz’altro ajuto da quelle tavole in fuori, ogni giudizio potria ritenersi infondato.
Gioverà piuttosto soffermarci alcun poco a Gaeta, la cronologia de’ cui duchi parve, anche a quel prodigio di erudizione che fu il p. Alessandro di Meo, un tessuto di tenebre per così dire fatali5. Ciò non di meno, è comprovato da documenti che nel terzo decennio del nono secolo Gaeta aveva i suoi ipati. Dopo la metà del secolo decimo, allorchè gl’ipati, smesso questo greco appellativo, si addimandarono consoli e duchi, e propriamente nel 964, ivi reggeva un Marino, cui si assegnano le rozze monete di rame che da una faccia ci presentano una m cinta dalla scritta consvl et dvx, e dall’opposta un busto sfigurato una croce a’ cui angoli s. e. a. ω, Sanctus Erasmus, alpha et omega. Dopo le quali, altre ne incontriamo, col nome della città, di Riccardo principe di Capua che nel 1063 pose fine alla sovranità di que’ consoli e duchi, ed altre normanne di uno dei due primi Guglielmi e di Tancredi. Il 21 giugno 1229 papa Gregorio IX, che allora dominava Gaeta e Sessa, così scriveva ai gaetani: De gratia vobis concedimus libertatem cudendi etiam monetam argenteam, ubi ex una parte imago capitis b. Petri cum subscriptione civitatis vestrae, ex alia vero in medio papae et in circulo superscriptio nostri nominis habeantur6. Ma questa moneta non vidi mai; ed altra invece mi si assicura esisterne di Gaeta colta effigie dell’imperatore Federico II che nel 1233 ricuperò quella città e, togliendole i più onorifici privilegii, consulatu privavit eandem7.
Staccatasi Amalfi dal dominio di Napoli nel secolo VIII, e sottrattasi al giogo di Sicardo principe di Benevento, si governò a repubblica sotto la suprema autorità di capi che dall’anno 840 all’842 prefetti, e fino all’897 conti s’intitolarono, assumendo poi nome e dignità ducale fino al 1127, anno in cui Ruggeri incorporò nella monarchia Amalfi ed il suo territorio. Dei tarì amalfitani e del loro valore parlano numerosi e irrefragabili documenti fino dal 1091, e li sappiamo aboliti nel 1222 da Federico II, perchè dì titolo assai scadente, e surrogati dai nuovi denari di Brindisi. Sennonchè nessuna dell’epigrafi arabe o latine dei tarì battuti tra l’epoche sovraccennate ci porge il nome o altro indizio della zecca di Amalfi, abbenchè dovettero essere coniati in quantità considerevole, se li troviamo indicati fin anche in istromenti del secolo XIV rogati a Napoli. Del pari le monete di rame, che il Fusco8 vorrebbe rivendicare a quella città ed a Mansone III che nel 1042, abbacinato e bandito dal fratello Giovanni, fu richiamato da Guaimario principe di Salerno a governare la debellata Amalfi in suo nome, ho preferito di attribuire alla zecca salernitana ed a Mansone II di Amalfi; non mi sapendo mai persuadere come Guaimario, sì geloso della propria dignità, abbia potuto spogliarsene in favore del cieco rappresentante, tollerando che, invece del proprio nome, quello si leggesse di Mansone III sulle monete; nè come sulle sole monete lo spodestato principe assumesse il predicato di viceduca, del quale niun monumento contemporaneo cel mostra mai insignito. Conchiudendo pertanto dirò, non conoscersi ancora moneta che sia con sicurezza da attribuire ad Amalfi.
A questo punto, mi è impossibile il non comprendere nel presente prospetto un rapido cenno delle zecche di là dal faro. Non ha dubbio che le monete degli emiri siciliani dei califfi fatimiti spettino a Palermo, dove è opinione del principe di Torremuzza9 che pure si contromarcassero le monete romane e greche con arabe epigrafi. Dalla bolla di papa Alessandro IV de’ 5 settembre 1255, emanata a favore di quella città durante la minorità di Corradino di Svevia, rileviamo che quella officina erasi mantenuta operosa anche sotto il regno di Ruggeri, de’ Guglielmi e dell’imperatore Federico, comechè si sappia che la precipua dell’isola a’ tempi dei normanni e degli svevi quella fu di Messina. Confermò, è vero, papa Alessandro gli antichi privilegii; ma credo che la importanza della zecca palermitana andasse gradatamente scemando, e fors’ancho essa rimanesse affatto inattiva ne’ primi anni di Carlo di Angiò. Messina e Brindisi erano le officine ove nel 1231 Federico decretò battersi gli augustali; e ne’ primordii del governo angioino, fino al 1280, abbiamo copia di documenti che concernono la zecca messinese, mentre ci mancano quelli della palermitana. Anche dell’antecedente reggimento normanno occorrono frequentissime le monete arabo-sicule col nome di Messina. Ma, staccatasi l’isola di Sicilia dal regno nel 1282 per la guerra del vespro, e passata sotto il dominio aragonese, non è questo il luogo da potercene occupare davvantaggio, senza uscire dal campo delle prefinite ricerche.
Niuna memoria a noi è rimasta della zecca di Mileto, metropoli degli stati di Ruggeri conte di Sicilia posti al di qua dal faro; non credo peraltro inammissibile la opinione del Capialbi, essersi battute in questa residenza le monete del medesimo Ruggeri le quali si scostano dal tipo siciliano, quelle cioè di rame col cavaliere e la B. Vergine, e le altre con una grande T nell’area10. Dee ritenersi che questa zecca cessasse colla morte del conte, avvenuta a Mileto nel 1101.
A lui succedette il figliuolo, parimente di nome Ruggeri, fondatore della monarchia. Ebbe questi una sorella, Matilde, disposata a Rainolfo conte di Alife e di Airola, il quale assistito dalle armi dell’imperatore Lotario II occupò nel 1137 gran parte di Puglia e delle Calabrie. Due anni dopo, morto Rainolfo, Ruggeri guerreggiando a ricuperare il reame strinse d’assedio Bari, che fu costretta a schiudergli le porte in sullo scorcio del settembre 1139. Si ha monetine di rame di questa città, senza nome di principe, ma col busto del protettore san Nicolò e la data 534 dell’egira, anno che durò dal 28 agosto 1139 al 16 agosto 40.
Come la zecca di Bari fu l’ultima ad aprirsi sotto il governo normanno, Brindisi fu la prima sotto lo svevo. Quivi l’imperatore Federico II facea battere nel 1222 i denari imperiali a surrogare gli aboliti tarì di Amalfi, e nel 1251 gli augustali e le loro metà. Brindisi fu la precipua zecca degli svevi, e tale si mantenne nei primi anni di Carlo di Angiò, che nel 1266 ne aprì una sussidiaria a Barletta per lo stampo dell’oro, giovandosi di zecchieri brindisini. Questo re fino al 77 spediva a Brindisi decreti concernenti la fabbrica delle monete minute, e l’anno appresso altri operai ne levava, richiamandoli alla nuova officina di Napoli; finalmente, l’atto di donazione ai frati minori dell’edificio della moneta e delle adjacenze per erigere il loro monastero, datato 2 marzo 1284, m’induce a credere che ogni operazione monetaria vi fosse di già cessata. Dopo circa due secoli, nuovi monumenti incontriamo che ci accusano il riaprimento della zecca di Brindisi, vale a dire i cavalli di Ferdinando I d’Aragona sul cui rovescio sta una colonnetta incoronata ad indicare l’arme della città, e posteriormente due belle varietà del cavallo di Ferdinando II, coniate net 1495 col motto Brundusina fidelitas, allusivo alla fede serbata agli aragonesi resistendo alle armi di re Carlo VIII di Francia11.
Vuolsi che a Manfredonia, città edificata dallo svevo Manfredi, questo re trasportasse la zecca di Brindisi. Non mi è noto documento che giustifichi cotale asserzione, che le memorie angioine della officina di Brindisi parrebbono confutare; ed è certo che niuna moneta di Manfredi reca verun contrassegno da farcela ascrivere ad altre zecche, da quelle in fuori di Brindisi e di Messina.
Ultima nell’ordine cronologico ci si presenta Barletta, officina aperta da Carlo I di Angiò con decreto de’ 15 novembre 1266 per coniarvi le nuove monete d’oro, vale a dire i regali e i mezzi regali, introdotti per surrogare gli augustali e le loro medaglie, nonché i tarì d’oro di nuova foggia, prevalendosi di monetieri di Brindisi. La zecca dell’oro fu trasferita nel 1278 a Napoli, come più addietro ho avvertito, e pare che allora quella di Barletta fosse già cessata.
Riassumendo le compendiose notizie sinora esposte, vedemmo finita la zecca di Benevento in sul declinare del nono secolo, la salernitana sullo scorcio del duodecimo, quella di Capua al più tardi nel 1130, quella di Gaeta nel 1233, quella di Amalfi verso il 1222, la brindisina prima del 1284; nè potendosi ragionevolmente attribuire che una esistenza effimera alle officine di Taranto, Teano, Sorrento, Mileto, Bari, Manfredonia e Barletta, e trovandosi in potere degli aragonesi Palermo e Messina, la sola zecca operosa del regno, durante il governo di Carlo II, di Roberto e di Giovanna I, era quella di Napoli.
Venghiamo ora ai sistemi monetarii del regno nell’epoche sovraccennate. Nei paesi sottoposti ai longobardi conteggiavasi a solidi di puro oro, ragguagliati al peso di un sesto d’oncia e frazionati ciascuno in tre tremissi o in 24 silique; il tremisse, almeno nel secolo IX, divideasi in 16 denari d’argento, ond’è che il solido a 48 denari corrispondeva. Ma siccome la zecca beneventana, ove tali monete coniaronsi in copia per vero straordinaria, le emetteva discrescenti nel peso, come nel titolo assai deteriorate, così negl’istromenti troviamo preferirsi sempre quelle uscite dalle zecche imperiali, le quali non voleano di cotal frode macchiarsi; quindi è ch’eziandio nei documenti di Benevento occorre sì frequente menzione dei solidi bizanzii costantinopolitani. A Napoli le ragioni si teneano del pari in solidi bizanzii, variamente divisi in due semissi, in tre tremissi, in quattro tarì d’oro, o in dodici migliaresi d’argento; diverso l’appellativo del tarì a seconda della zecca ond’era uscito, amalfitano, salernitano, siculo. Ma cessato l’uso dei solidi alla conquista normanna, sottentrò il computo ad once d’oro da 30 tarì ciascuna, e il tarì assunse per siffatta guisa il doppio carattere di moneta e di peso, onde, restandogli come moneta l’antico nome, come peso quello gli fa dato di tarpisium a dinotare la trigesima frazione dell’oncia. Investito Ruggeri nel 1139 da papa Innocenzio II del reame di Sicilia e il figliuol suo Ruggeri del ducato di Puglia, volle quel re eternare l’anno successivo la memoria di sì gran fatto, stampando una nuova moneta d’argento del valore di 8 romesine o di 24 follari, che dal titolo del figliuolo si chiamò ducato12; rimase però inalterato il tarì, e con esso l’oncia di conto.
Devesi all’imperatore Federico II di Svevia la nuova divisione, operata il 1222, dell’oncia in 600 grana, e quindi del tarì in 20 grana, come pure da lui si coniò il mezzo grano nel denaro di mistura, del quale si vide pure la metà, corrispondente al quarto di grano d’oro. Per decreto del 1231 le zecche di Brindisi e di Messina stamparono gli augustali e i mezzi augustali, le più eleganti monete che dai bei tempi di Roma in poi si fosser vedute, nobili monumenti della risorgente arte italiana. L’augustale si fece del valore di un quarto d’oncia o di tari 7 ½, alla bontà di carati 20 ½, a differenza dei tarì brindisini e messinesi, la cui bontà, era soltanto di carati 16 ; e il nome gli provenne dallo effigiatovi busto dell’augusto Federico. Che se, com’è probabilissimo, la fabbrica di quella moneta durò quanto il governo svevo, del che può trovarsi prova nella copia di augustali tuttavia superstite e nella ricca varietà dei loro conii, i successori di Federico non desistettero mai dal riprodurre sovr’essi la effigie e il nome del restitutore della moneta d’oro dell’Europa occidentale.
Carlo I di Angiò che, per invito di papa Urbano IV, fece suo il reame dell’una e l’altra Sicilia nel 1266, e fondò la nuova dinastia, non intralasciò nel primo anno del suo regno lo stampo dell’oro, nella zecca di Barletta; ma sostituì la propria alla imagine di Federico, e all’aquila lo scudo angioino, abolendo così i veri augustali, e dando alle nuove monete di pari peso e valore il nome di regali. Volle pure che proseguisse, nelle due zecche che furono degli svevi, la monetazione dei denari di mistura tra il 1268 e il 78, nel qual anno, stando egli in Roma, ordinò aprirsi la nuova zecca dell’oro nel castello Capuano di Napoli per battervi i carolensi, detti anche saluti dalla effigiatavi salutazione angelica, pari di peso e valore agli augustali e ai regali, di cui quattro corrispondevano a cinque fiorini d’oro. Ragguagliavasi il carolense a 15 carlini d’argento collo stesso tipo improntati, del peso ciascuno di d’oncia, alla bontà di 11 once e 3 sterlini per libbra, e suddiviso in 10 grana, siccome rappresentante la metà del tari.
Carlo II, dopo avere fino al 1305 coniati i carlini sul piede di quelli del padre, vi apportò in quell’anno tale una innovazione che ognuno, pur serbando inalterata l’antica bontà e l’antica divisione in 10 grana, soverchiasse di 15 acini, il che è dire di il peso degli anteriori. Questo rapido mutamento delle proporzioni esistenti fra’ due nobili metalli cagionò una strabocchevole introduzione di fiorini e ducati; onde nel 1315 statuì re Roberto che le once di conto si pareggiassero, non più in oro, ma in 60 carlini; e il ducato (che importatovi da Venezia si fece nel volger di pochi anni la moneta più usuale nelle contrattazioni) si ragguagliò, non più a 12, ma sì a 10 carlini. Giovanna I non recò mutamenti al sistema del padre; nè, solo che si abbia riguardo alla sempre maggior diffusione del ducato veneto d’oro nel regno di Napoli da Carlo II in poi, sorprenderà più come quella regina, seguendo l’esempio del padre e dell’avo, si astenesse dal monetare l’oro nella sua zecca, esempio che pur seguitarono tutt’i suoi successori di stirpe angioina. Per tal modo, dalla morte di Carlo I di Angiò fino alla incoronazione di Alfonso I di Aragona, vale a dire per un secolo e mezzo, i re di Napoli non fecero coniare alcuna moneta d’oro, comechè talvolta ne abbiano battuto nelle loro zecche della Provenza, il cui sistema monetario era affatto diverso da quello del regno.
Note
- ↑ Mabillon, Annales ordinis S. Benedicti, Lucae 1739, in fol., T. II, p. 239.
- ↑ Delle monete dell’imperatore Giustiniano II, nelle Memorie della R. Accademia di Torino, Serie II, vol. VIII, 1846.
- ↑ Welzl von Wellenheim, Verzeichniss ec. T. II, P. I, p. 280, n. 3248 e 3249.
- ↑ Salvatore Fusco, Tavole di monete del reame di Napoli e Sicilia, inserite negli Atti dell’Accademia Pontaniana, T. IV, tav. I, n. 8 e 9; tav. IV, n. 8.
- ↑ Di Meo, Apparato cronologico agli Annali del regno di Napoli della mezzana età, Spoleto 1831, pag. 188.
- ↑ Bullarum privilegiorum ac diplomatum romanorum pontificum amplissima collectio, Romae 1740, T. III, p. 260.
- ↑ Richardus de S. Germano, Chronicon, In Murat. Rer. Ital. Script. T. VII, c. 1032.
- ↑ Salv. Fusco, Intorno ad alcune monete di Amalfi, memorie ins. negli Atti dell’Accademia Pontaniana, T. V, p. 5 e seg.
- ↑ Gabriele Lancillotto Castello principe di Torremuzza, Memoria delle zecche del regno di Sicilia, ins. negli Opuscoli Siciliani, T. XVI.
- ↑ Capialbi, Memorie per servire alla storia della S. Chiesa Miletese, Napoli 1835, p. XI. — Sulla moneta battuta in Catanzaro il 1528, Messina 1839, p. 9.
- ↑ Giuseppe Maria Fusco, Intorno ad alcune monete aragonesi ed a varie città che tennero zecca in quella stagione, memoria inserita negli Atti dell’Accademia Pontaniana, T. V, pag. 25 e seg., tav. II, n. 5 e 6.
- ↑ Salv. Fusco, Dissertazione su di una moneta del re Ruggeri detta Ducato, Napoli 1812.
- Testi in cui è citato Giulio Cordero di San Quintino
- Testi in cui è citato Salvatore Fusco
- Testi in cui è citato Alessandro di Meo
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