Vai al contenuto

Storia d'Italia/Libro XVI/Capitolo XIII

Da Wikisource.
Libro sedicesimo
Capitolo tredicesimo

../Capitolo XII ../Capitolo XIV IncludiIntestazione 23 maggio 2008 75% Storia

Libro XVI - Capitolo XII Libro XVI - Capitolo XIV
[p. 332 modifica]

XIII

Ragioni dell’invio dell’ambasciatore di Cesare al pontefice. Obiezioni del pontefice alle proposte di Cesare e promesse dell’ambasciatore. Accordo provvisorio fra il pontefice e Cesare.

La cagione della venuta sua fu che Cesare, poi che ebbe dato commissione tale al marchese di Pescara che almanco era in arbitrio suo lo occupare lo stato di Milano, dubitando che per questo non si facessino in Italia nuovi movimenti, ristrinse le pratiche dell’accordo col legato Salviato: in modo che tra loro fu fatta capitolazione, riservata però la condizione della ratificazione del pontefice, nella quale se gli sodisfaceva della restituzione di Reggio e di Rubiera, e vi si includeva la difesa e conservazione del duca di Milano, che erano le cose state principalmente desiderate da Clemente, ma con condizione espressa che, nel caso della sua morte, non potesse ritenere per sé quel ducato né darlo allo arciduca suo fratello, ma ne investisse monsignore di Borbone; il quale il pontefice medesimo, assai inconsideratamente, per conforti dello arcivescovo di Capua, gli aveva, insieme con Giorgio di Austria fratello naturale di Massimiliano Cesare, proposto, nel tempo che per la infermitá fu quasi disperata la vita di Francesco Sforza. La quale capitolazione fatta, il legato, non aspettato che da Clemente avesse la perfezione, non potette o non seppe negare di dare a Cesare il breve tanto desiderato della dispensa: la quale essendo stata fatta prima con espressione solamente dello impedimento in secondo grado senza nominare la figliuola del re di Portogallo, per manco offendere il re di Inghilterra, o perché, essendo tra loro vincolo doppio di affinitá, non fusse fatta menzione se non del vincolo piú potente, fu necessario farne un’altra che con espressa nominazione delle persone comprendesse tutti gli impedimenti. Con la espedizione di questa confederazione partí il comandatore Errera dalla corte cesarea, uno giorno o due dipoi [p. 333 modifica]che Cesare aveva ricevuto l’avviso della cattura del Morone: e condotto, il sesto dí di dicembre, innanzi al pontefice, oltre a molte offerte e fede larghissima della buona disposizione di Cesare, gli presentò i capitoli [dell'accordo]; del quale se bene i capitoli che trattavano del sale e delle cose beneficiali del reame di Napoli erano discrepanti da quello che aveva appuntato col viceré, pure, perché il principale suo fine era di assicurarsi da’ sospetti, gli arebbe accettati se avesse conosciuto procedersi sinceramente nelle cose del ducato di Milano. Ma poi che nel capitolo che trattava di Francesco Sforza non si faceva menzione della imputazione che gli era stata data, né si prometteva di restituire lo stato tolto né di perdonargli gli errori che avesse commesso (anzi Cesare, nella conclusione fatta col legato e nella istruzione data a questo suo agente, non aveva dimostrato di saperne cosa alcuna), fu conosciuta facilmente la astuzia e arte loro: perché la confederazione e la promessa di conservare e difendere Francesco Sforza nel ducato di Milano non privava Cesare della potestá di procedergli contro come suo vassallo, e dichiarare il feudo divoluto, per la imputazione dello avere macchinato contro alla Maestá sua; e Borbone, surrogato in caso della sua morte, veniva anche a succedere in caso della sua privazione, perché dalle leggi è considerata la morte naturale e la morte civile, della quale dicono morire chi è condennato per tale delitto. Però rispose il pontefice, con gravissime parole: non avere con Cesare causa alcuna particolare di discordia, anzi, che di ogni differenza e disputa che potesse essere tra loro non eleggerebbe mai altro giudice che lui; ma che era anche necessario fermare in modo le cose comuni che Italia restasse sicura, il che non poteva essere se non si rilasciava a Francesco Sforza il ducato di Milano; e gli mostrò le ragioni per le quali quello capitolo cosí generale non era bastante; conchiudendo che a lui sarebbe grandissimo dispiacere di essere necessitato a pigliare nuove deliberazioni, e discostarsi da Cesare col quale era stato sempre congiuntissimo. Replicò il duca di Sessa che la mente di Cesare era sincerissima, e che senza dubbio era contento che, non ostante [p. 334 modifica]tutto quello fusse accaduto, il ducato di Milano restasse a Francesco Sforza, ma che per inavvertenza non era stato disteso il capitolo in ampia forma; ma facesse il pontefice riformarlo a modo suo, che gli promettevano presentargli in termine di due mesi la ratificazione, pure che anche egli promettesse che, durante questo tempo, non conchiuderebbe la lega che si trattava col governo di Francia e co’ viniziani. Fu conosciuto chiaramente per ciascuno che questa offerta non aveva altro fondamento che il desiderio di guadagnare dilazione di due mesi, acciò che Cesare avesse spazio di potere meglio deliberarsi e provedere i rimedi contro a tanta unione; e nondimeno il pontefice, dopo molte dispute e con grandissimo dispiacere degli altri imbasciadori, acconsentí a questa dimanda, sí per desiderio di allungare quanto poteva lo entrare nelle spese e nelle molestie come perché gli pareva che, mentre che il cristianissimo era prigione, fusse pericolosissima ogni congiunzione che si facesse con la madre, essendo in potestá di Cesare dissolverla ogni volta che gli piacesse; e questa dilazione potere pure portare, ancorché poco se ne sperasse, la conclusione desiderata; e se pure causasse la concordia tra i due re, considerò profondamente (ancora che molti altri giudicassino in contrario) che meglio era che si facesse in tempo che Cesare avesse minore necessitá; perché quanto fusse in grado migliore tanto sarebbono piú gravi le condizioni che egli porrebbe al re di Francia; l’asprezza delle quali dava speranza che il re, poiché fusse liberato, non le avesse a osservare. Fu aggiunto ancora in questo trattato che nel medesimo tempo non si innovasse né di lavorare né di altro contro al castello di Milano, se Francesco Sforza si obligava a non offendere e molestare quegli di fuora; la quale condizione egli non volle accettare.