Dialoghi dei morti/10
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Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
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10.
Caronte, Mercurio, e diversi morti.
Caronte. Udite, l’è cosa che ci riguarda. Noi abbiamo, come vedete, un po’ di battelletto, che sotto è marcio e fa acqua, e se poco inclinerà da una banda, anderà sossopra. Voi venite a folla, ciascuno con molte cose addosso. Se c’entrate con questo peso, temo che non farete senno tardi, specialmente voi altri che non sapete nuotare.
I morti. Come dunque faremo per avere buon tragitto?
Caronte. Ve lo dirò io. Dovete entrar nudi, lasciando su la riva tutti cotesti impacci: chè anche così appena capirete nel battello. Tu poi, o Mercurio, baderai a non metter dentro alcuno di loro che non sia leggiero, ed abbia, come ho detto, gettato ogn’impaccio. Mettiti in capo alla scala, fà un po’ di ricerca a ciascuno, e ricevili, costringendoli ad entrar nudi.
Mercurio. Ben dici, e così faremo. Tu che ti fai innanzi, chi sei?
Menippo. Son Menippo io. Eccoti, o Mercurio, bisaccia e bastone gettati nel palude: feci bene a neppure portarmi il mantello.
Mercurio. Entra, o Menippo, fiore degli uomini, ed abbi il primo posto presso al nocchiero lassù, acciocchè riguardi tutti. E questo bello chi è?
Carmolao. Carmolao, quel di Megara, quel tanto amato, il cui bacio valeva due talenti.
Mercurio. Spògliati adunque della bellezza, e delle labbra con tutti i baci, e delle lunghe chiome, e dell’incarnato delle gote, e di tutta la pelle. Bene così: or se’ leggiero: monta. E tu con quella porpora, quel diadema, e quel fiero piglio, chi se’ tu?
Lampico. Lampico, re de’ Geloi.
Mercurio. E ti presenti, o Lampico, con tutta questa roba indosso?
Lampico. E che, o Mercurio? un re doveva venir nudo?
Mercurio. Qui non c’è re, ma ben morti: deponila.
Lampico. Ecco, ho gittata la ricchezza.
Mercurio. Getta anche la grandigia, o Lampico, e la superbia: chè la barca n’affonderebbe.
Lampico. Almeno ch’io m’abbia il diadema e il paludamento.
Mercurio. Niente: giù anche questo.
Lampico. Sia. Che più? Ho lasciato ogni cosa, come vedi.
Mercurio. E la crudeltà, e la stoltezza, e la violenza, e il furore, tutto questo devi lasciare.
Lampico. Eccomi spoglio di tutto.
Mercurio. Ora entra. E tu ben tarchiato e carnuto chi se’?
Damasia. Damasia l’atleta.
Mercurio. Ben mi parevi: mi sovviene d’averti veduto spesso nelle palestre.
Damasia. Sì, o Mercurio: e ricevimi, che son nudo.
Mercurio. Nudo no, o caro mio, con tante carni addosso: però deponile, chè faresti andar giù la barca se vi mettessi pure l’un de’ piedi, ma getta coteste corone e i bandi delle tue vittorie.
Damasia. Vedimi, or sono veramente nudo, e di tanto peso quanto gli altri morti.
Mercurio. Così leggiero sta bene. E tu, o Cratone, che hai gettato via le ricchezze, le morbidezze ed il lusso, non portare la veste in cui ti han sepolto, nè le dignità degli antenati: lascia e nobiltà e gloria e onori avuti dai cittadini, e iscrizioni poste alle tue statue, e il vanto di avere un gran sepolcro: chè tutte queste cose pesano anche a ricordarle.
Cratone. Con dolore, ma le getto; come posso altramente?
Mercurio. Caspita! e tu così armato che vuoi? a che porti cotesto trofeo?
Soldato. Fui vincitore in battaglia, o Mercurio; m’illustrai, e la città mi diede questo onore.
Mercurio. Lascialo sulla terra il trofeo: quaggiù è pace, e non bisogna armi. E costui grave al vestimento, questo superbo, questo accigliato e pensoso, chi è egli, con sì gran barba sciorinata sul petto?
Menippo. Qualche filosofo, o Mercurio; o piuttosto qualche ciurmadore pieno d’imposture. Fà che si spogli, e vedrai molte cose ridicole nascoste sotto il mantello.
Mercurio. A te: deponi prima il vestimento; e poi tutto il resto. O Giove! quanta iattanza ei porta sotto, quanta ignoranza e contese e vanagloria: quante quistioni strane, discorsi spinosi, pensieri ravviluppati! quanti studii vani, ed inezie, e sciocchezze, e paroluzze. E questo altro? sì, è oro, amorazzi, impudenza, iracondia, e lusso, e mollezza. Non nascondere, chè io vedo tutto. Deponi ancora la bugia, l’orgoglio, la presunzione. Se vi entri con tutto questo, ci vorria una nave di cinquanta remi per portarti.
Filosofo. Depongo tutto, giacchè così m’imponi.
Menippo. Deponga quella barba ancora, o Mercurio: vedi come è pesante ed irsuta: son cinque mine di peli almanco.
Mercurio. Dici bene: deponila.
Filosofo. E chi me la raderà?
Mercurio. Questo Menippo: prenderà la scure della nave, e te la taglierà sopra la scala, che gli sarà come ceppo.
Menippo. No, o Mercurio: dammi una sega, chè saran le risa più grandi.
Mercurio. La scure basta. Or bene: via, m’hai fatto un po’ di viso da uomo, e senti meno del caprone.
Menippo. Vuoi che gli mozzi un po’ delle sopracciglia?
Mercurio. Sì: ei le alza fin sopra la fronte, gonfiandosi non so perchè. Ma che è? Tu piangi, o vigliacco? la morte ti fa paura? Entra pure.
Menippo. Bada: ha un’altra cosa assai pesante sotto l’ascella.
Mercurio. E quale, o Menippo?
Menippo. L’adulazione, o Mercurio, che nella vita gli valse tant’oro.
Filosofo. E tu, o Menippo, anche tu deponi la parlantina, la franchezza, il buon umore, il motto, il riso: chè solo tu ridi fra tutti gli altri.
Mercurio. No: ritienile queste cose: le son vuote, leggiere, e buone pel navigare. E, tu, o Retore, deponi tanti paroloni, e contrapposti, e cadenze eguali, e periodi, e barbarismi, e le altre pesantezze del discorso.
Retore. Ecco, le lascio.
Mercurio. Ora va bene. Sciogli la gomena, tiriam su la scala, leviamo l’áncora, apri la vela, dirizza il timone, o nocchiero, e andiamo. Perchè piangete, o sciocchi? massime tu, o filosofo, testè sbarbazzato?
Filosofo. Perchè credevo, o Mercurio, l’anima essere immortale.
Menippo. Ei mente per la gola: ben altro lo accora.
Mercurio. E che cosa?
Menippo. Che non isguazzerà più ne’ sontuosi banchetti, non più uscirà di notte tutto incappucciato per non farsi conoscere, a girar pe’ bordelli; nè più la mattina ingannerà i giovani vendendo la sapienza a danari. Questo lo accora.
Filosofo. E a te, o Menippo, non dispiace che sei morto?
Menippo. Che dispiacere? io andai incontro alla morte che non mi chiamava. Ma mentre parliamo non udite voi un rumore come di gente che grida su la terra?
Mercurio. Sì, o Menippo, e non viene da un luogo solo. Alcuni convengono in parlamento e si rallegrano della morte di Lampico, mentre la moglie è afferrata dalle donne ed i figlioletti sono accoppati co’ sassi dai fanciulli. Altri in Sicione lodano il retore Diofante che bela il panegirico di questo Cratone. E la madre di Damasia dolorosa comincia con le donne il piagnisteo sopra il figliuolo. Tu non se’ pianto da nessuno, o Menippo: ma te ne stai zitto e solo.
Menippo. Altro! or ora udirai che latrar di cani sovra di me, e che svolazzar di corvi, che verranno a seppellirmi.
Mercurio. Sei generoso, o Menippo. Ma già siamo arrivati: voi andatevene al tribunale, camminate diritti per questa via. Io e il nocchiero tragitteremo altri.
Menippo. Buon viaggio, o Mercurio. Avviamoci noi. A che restate? Volere o non volere, si dev’esser giudicati: e dicono che le pene sono gravi assai, ruote, avoltoi, pietre. A ciascuno sarà fatto strettissimo il conto della vita.