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Malina Suliman

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Malina Suliman

Malina Suliman (Kandahar, 1990[1]) è un'artista afghana che si occupa di graffiti, lavori in metallo e pittura.

Il suo lavoro è considerato una sfida alla cultura musulmana tradizionale; fra le sue opere più note vi è il graffito raffigurante uno scheletro avvolto in un burqa blu, da lei definito un autoritratto, disegnato negli anni duemila nelle strade di Kabul, e ispirato alla condizione delle donne in Afghanistan.[2] Ha ricevuto minacce e subito aggressioni da parte dei talebani e dai musulmani tradizionalisti per le sue creazioni, ritenute blasfeme.[3].

Dal 2014 vive in Olanda, dove ha conseguito un master presso il Dutch Art Institute di Arnhem.[4]

Malina Suliman è nata a Kandahar nel 1990, in una famiglia di cinque fratelli e tre sorelle. Fin da bambina ha dimostrato un forte interesse per l'arte.[5] Nel 2010, all'insaputa del padre, ha ottenuto il Bachelor of Arts all'Art Council di Karachi, in Pakistan[6]; i suoi studi sono stati interrotti quando i suoi genitori le hanno chiesto di tornare a casa.[2]

La famiglia ha cercato di impedirle di continuare la carriera artistica, vietandole per un anno di uscire dalla sua abitazione e di frequentare estranei.[3] Durante il periodo di chiusura forzata in casa, ha dichiarato di sentire di aver perduto la sua identità, e di averla ritrovata solo quando il marito di sua sorella l'ha portata ad una mostra: «Iniziai ad urlare e a piangere, mi sentivo come se fossi tornata quella di prima ed esistevo di nuovo».[7]

Ha ricominciato la sua attività con la consapevolezza che non avrebbe avuto il consenso della sua famiglia e del suo ambiente sociale. Si è unita all'associazione Berang Arts, e ha appreso l'arte dei graffiti.[8] Ha fondato in seguito un gruppo artistico locale, la Kandahar Fine Arts Association (KFAA), per contribuire al movimento artistico contemporaneo.[9]

I suoi graffiti e le mostre che ha organizzato hanno provocato forti reazioni e indignazione nel pubblico; è stata aggredita con lancio di pietre da alcune persone e ha ricevuto minacce dai talebani che ritenevano le sue opere idolatre e anti islamiche[10]: "Dipingevo graffiti sulle rocce e sui muri e loro mi lanciavano pietre e mi condannavano. Mi trasferivo in un'altra zona ma loro mi seguivano lì e mi colpivano con pietre"[3]. Il suo lavoro ha tuttavia ricevuto anche degli apprezzamenti: durante una mostra a Kandahar ha ottenuto l’attenzione del governatore Tooryalai Wesa che ha lodato la sua attività, auspicando che “più donne facessero lo stesso”[11], e il presidente Hamid Karzai l'ha invitata ad un incontro per conoscere meglio il suo lavoro.

Nel 2013 un'aggressione subita da suo padre ad opera dei talebani, ha spinto la famiglia a trasferirsi a Mumbai, in India, dove ha studiato alla Sir Jamsetjee Jeejeebhoy School of Art.[3] Nel 2014, come richiedente asilo, si è trasferita nei Paesi Bassi e ha conseguito un Master of Arts presso l'Istituto artistico olandese.[4]

Lo scheletro nel burqa

La sua è un'arte di denuncia, intende colpire i pregiudizi culturali e religiosi e sociali, come la discriminazione subita da lei e dalle altre donne nel suo paese; ha usato i graffiti per “dare voce ai muri” in Afghanistan.[2][5] In un'intervista ha affermato: “Ho pensato, ok… se nessuno dice qualcosa, chi lo farà?”[12] Ha affrontato la realtà di essere una figura controversa in Afghanistan, sapendo che poteva essere uccisa per la sua arte, ritenuta pericolosa.[13]. Il suo graffito più famoso è lo scheletro che indossa un burqa blu, un indumento che lei fin da bambina ha percepito come una forma di controllo; l'immagine dello scheletro, da lei definito un autoritratto, simboleggia la mancanza di identità delle donne in Afghanistan, la loro condizione di cittadine di seconda classe, oppresse e perseguitate se chiedono che vengano riconosciuti i loro diritti.[4] Il suo dipinto Girl in the Icebox raffigura una ragazza velata bloccata in una scatola di ghiaccio: rappresenta la cultura afghana che tiene le donne in ostaggio.[14]

In un'altra delle sue opere più macabre e oscure rappresenta una donna impiccata, o un bambino disabile, simbolo delle vittime di una guerra brutale. In un'intervista, ha così interpretato la reazione del pubblico di fronte alle sue opere: “Molte persone non avevano mai visto un'installazione d’arte prima…Alcuni si offesero e altri si sentirono feriti perché lo avevano sperimentato prima.”[11]

Nell'opera Today's Life, l'artista riflette sulla sua infanzia e il destino che i genitori avrebbero voluto riservarle: il dipinto raffigura un feto appeso ad un albero e sottoposto a spinte che lo portano in direzioni differenti. Per Malina, il suo destino era già stato deciso da prima che nascesse. “Prima che un bambino nasca, i genitori stanno già pensando che un figlio può sostenerli e una figlia può essere sposata con un ricco pretendente. Non si fermano a pensare a cosa il bambino può desiderare."[11]

  1. ^ Malina Suliman, in Kabul Art Project, 2013. URL consultato il 16 giugno 2014 (archiviato dall'url originale il 28 marzo 2019).
  2. ^ a b c Giulia Giaime, Afghanistan, il concetto di identità, l’arte in Occidente: il mondo dagli occhi di Malina Suliman, su artribune.com, 23 agosto 2021. URL consultato l'11 maggio 2022.
  3. ^ a b c d (EN) Afghan graffiti artist makes her mark in India, su bbc.com, 3 marzo 2013. URL consultato l'11 maggio 2022.
  4. ^ a b c (EN) Malina Sulina, su artrepresent.com. URL consultato l'11 maggio 2022.
  5. ^ a b (EN) Meet Malina from Afghanistan whose powerful art highlights the times we live in!, su nonwatersanitation.org, 28 novembre 2018. URL consultato l'11 maggio 2022.
  6. ^ (EN) Malina Suliman, su Kabul Art Project, 2013. URL consultato l'11 maggio 2022 (archiviato dall'url originale il 3 luglio 2014).
  7. ^ (EN) Speaking thru Graffiti, su 4ggl.org. URL consultato l'11 maggio 2022.
  8. ^ (EN) Kabul Art Projects: 6 Afghan artists to know now | Art Radar, su artradarjournal.com. URL consultato il 6 luglio 2020 (archiviato dall'url originale il 20 giugno 2020).
  9. ^ (EN) Gwen Kuan-ying Kuo, Voices behind the veils. Malina Suliman and Shamsia Hassani, Afghanistan, su muslima.globalfundforwomen.org, 11 maggio 2022.
  10. ^ (EN) First UK Solo Exhibition For Afghan Street Artist Who Fled Taliban: Video, su Artlyst. URL consultato l'8 luglio 2020.
  11. ^ a b c (EN) Afghan female artist beats the odds to create, in Reuters, 29 gennaio 2013. URL consultato il 6 luglio 2020 (archiviato dall'url originale il 6 luglio 2020).
  12. ^ (EN) Speaking thru Graffiti | 4GGL, su 4ggl.org. URL consultato l'8 luglio 2020.
  13. ^ (EN) Julia Baird, The Writing Is on the Wall, in The Wall Street Journal, 27 maggio 2014. URL consultato il 9 marzo 2021.
  14. ^ (EN) Nurul Yusof, Appreciating Islamic Contemporary Art Of Afghanistan Country (PDF), in Proceeding, June 2016, 2016, pp. 128. Ospitato su Google Scholar.

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