Instrumentum regni
Instrumentum regni (letteralmente: «strumento di regno», dunque «di governo») è una locuzione latina ispirata forse da un passaggio delle Storie di Tacito[1]. Viene usata per esprimere la strumentalizzazione della religione da parte dello Stato o del potere ecclesiastico (ad es. la Chiesa cattolica) come mezzo di controllo delle masse, o, in particolare, per conseguire fini politici e mondani.
Storia
[modifica | modifica wikitesto]Il concetto espresso dalla locuzione è presente nella riflessione politica di più epoche e ha conosciuto varie declinazioni, venendo ripreso da diversi scrittori e filosofi nel corso della storia. Tra questi, Polibio, Lucrezio, Niccolò Machiavelli, Montesquieu, Vittorio Alfieri e Giacomo Leopardi.
Tra i più antichi e importanti vi fu lo storico greco Polibio, che nelle sue Storie così si esprime:
«Quella superstizione religiosa che presso gli altri uomini è oggetto di biasimo, serve in Roma a mantenere unito lo Stato: la religione è più profondamente radicata e le cerimonie pubbliche e private sono celebrate con maggior pompa che presso ogni altro popolo. Ciò potrebbe suscitare la meraviglia di molti; a me sembra che i Romani abbiano istituito questi usi pensando alla natura del volgo. In una nazione formata da soli sapienti, sarebbe infatti inutile ricorrere a mezzi come questi, ma poiché la moltitudine è per sua natura volubile e soggiace a passioni di ogni genere, a sfrenata avidità, ad ira violenta, non c'è che trattenerla con siffatti apparati e con misteriosi timori. Sono per questo del parere che gli antichi non abbiano introdotto senza ragione presso le moltitudini la fede religiosa e le superstizioni sull'Ade, ma che piuttosto siano stolti coloro che cercano di eliminarle ai nostri giorni.[2]»
Prima di Polibio, una tesi analoga fu espressa nel V secolo a.C. dal politico e scrittore ateniese Crizia, discepolo di Socrate. In un dramma satiresco intitolato Sisifo, del quale ci è stato tramandato un lungo frammento, egli scrisse infatti:
«Giacché le leggi distoglievano bensì gli uomini dal compiere aperte violenze, ma di nascosto le compivano, allora, suppongo, dapprima un qualche uomo ingegnoso e saggio di mente inventò per gli uomini il Timor degli dèi, sì che uno spauracchio ci fosse ai malvagi anche per ciò che di nascosto facessero o dicessero o pensassero. Laonde introdusse la divinità sotto forma di Genio, fiorente di vita imperitura, che con la mente ode e vede, e con somma perspicacia sorveglia le azioni umane, mostrando divina natura; il quale Genio udirà tutto quanto si dice tra gli uomini e potrà vedere tutto quanto da essi si compie. E se anche tu mediti qualche male in silenzio, ciò non sfuggirà agli dèi; ché troppa è la loro perspicacia. Facendo di questi discorsi, divulgava il più gradito degli insegnamenti, avvolgendo la verità in un finto racconto. E affermava gli dèi abitare colà, dove ponendoli, sapeva di colpire massimamente gli uomini, là donde sapeva che vengono gli spaventi ai mortali e le consolazioni alla loro misera vita: dalla sfera celeste, dove vedeva esserci lampi, e orrendi rombi di tuoni, e lo stellato corpo del cielo, opera mirabilmente varia del sapiente artefice, il Tempo; là donde s’avanza fulgida la massa rovente del Sole, donde l’umida pioggia sovra la Terra scende. Tali spaventi egli agitò dinanzi agli occhi degli uomini, e servendosi di essi, costruí con la parola, da artista, la divinità, ponendola in un luogo a lei adatto; e spense così l’illegalità con le leggi.[3]»
Nel pensiero rinascimentale il concetto fu ripreso da Niccolò Machiavelli nel suo Principe e nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio[4].