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Homo faber fortunae suae

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L'uomo vitruviano di Leonardo da Vinci

La locuzione latina homo faber fortunae suae, espressa anche nella forma alternativa homo faber ipsius fortunae, significa letteralmente «l'uomo è l'artefice della propria sorte»; il verbo est è stato omesso per rendere la frase più scorrevole.

Uso originario

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La frase è attribuita all'autore romano Appio Claudio Cieco (350–271 a.C.), che la usò nelle sue Sententiae,[1] massime a carattere moraleggiante e filosofeggiante, riferendosi alla capacità dell'essere umano di guidare il proprio destino e gli eventi che lo circondano.

Prometeo plasma l'uomo, olio su tela di Piero di Cosimo (1515)

L'espressione homo faber venne riscoperta e rivalutata dagli umanisti del XIV secolo, assurgendo a ideale della nuova umanità nell'Italia rinascimentale e nelle corti europee.

Conciliandosi con l'aspirazione all'homo sapiens, l'homo faber rappresentava un sapere non più fine a se stesso, ma che racchiudeva anche un potere: un sapere cioè non solo contemplativo ma funzionale all'azione, attore e costruttore del mondo, in virtù della centralità che l'anima umana assumeva nell'universo. Tenendone collegati gli estremi opposti, il cielo e la terra, il macrocosmo e il microcosmo, l'uomo è definito infatti da Ficino vera copula mundi,[2] poiché scopre la loro segreta e occulta analogia e li riunifica grazie alla forza dell'amore.[3]

Disciplina emblematica di questa nuova concezione dell'essere umano è l'alchimia, per il valore prometeico attribuito all'attiva trasformazione della natura vista come riflesso della trasmutazione interiore dell'alchimista.[4] Anche Pico della Mirandola esaltò la peculiarità dell'uomo, unico nella «scala degli esseri» a potersi forgiare da solo, avendo libertà di scelta di evolversi verso l'alto o abbrutirsi verso il basso.[2]

Nell'ambito dell'antropologia culturale, la definizione di homo faber viene genericamente contrapposta a quella complementare di homo religiosus e contemplativo, per quanto lo studioso Mircea Eliade abbia messo in risalto che il modo di operare dell'homo faber è da ricondurre pur sempre ad un contesto sacro,[5] senza rottura col trascendente, essendo il sacro «un elemento della struttura della coscienza e non un momento della sua storia».[6]

Una variante della suddetta frase è la locuzione forse più famosa e grammaticalmente più complessa Faber est suae quisque fortunae: «ciascuno è artefice della propria sorte».

  1. ^ «Fabrum esse suae quemque fortunae», frammento 3 della raccolta W. Morel, Fragmenta poetarum Latinorum Epicorum et Lyricorum: praeter Ennium et Lucilium, Lipsia, Teubner, 1995.
  2. ^ a b Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, pp. 228-230, Giunti Editore, 1999.
  3. ^ Ioan P. Couliano, Eros and the Magic in the Renaissance, University of Chicago Press, 1987.
  4. ^ Michela Pereira, Alchimia. I testi della tradizione occidentale, Mondadori, 2006, recensione di Elena Laurenzi, La Luce del sapere alchemico sulla razionalità occidentale, su libreriadelledonne.it.
  5. ^ Julien Ries, Il sacro nella storia religiosa dell'umanità, pp. 231-2, trad. it. di Franco Marano, Jaca Book, 1995 3.
  6. ^ Mircea Eliade, Religions australiennes, pp. 26-36, Parigi, Payrot, 1972.

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Voci correlate

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