Pro Scauro

orazione di Marco Tullio Cicerone

L'orazione Pro Scauro fu pronunciata da Cicerone nell'anno 54 a.C. in difesa di Marco Emilio Scauro.

Orazione a favore di Emilio Scauro
Titolo originaleOratio pro Aemilio Scauro
AutoreMarco Tullio Cicerone
1ª ed. originale69 a.C.
Genereorazione
Sottogeneredifensiva
Lingua originalelatino
ProtagonistiMarco Emilio Scauro

Si tratta di un'orazione incompleta: i passi pervenutici, sono stati conservati da due palinsesti, uno Ambrosiano e uno Torinese. Importanti sono anche alcuni frammenti tramandati da Quinto Asconio Pediano, autore del I secolo d.C., il quale compose tra il 54 e il 57 l'Orationum Ciceronis quinque enarratio, un Commentario a cinque orazioni ciceroniane.

Contesto storico

modifica

L'orazione in difesa di Marco Emilio Scauro è dell'anno 54 a.C., un anno particolare per la politica del cosiddetto primo triumvirato. Negli anni precedenti Cicerone era stato uno strumento nelle mani dei triumviri: fu obbligato a difendere Balbo, fu costretto da Cesare a prendere le difese di Vatinio, accusato di brogli elettorali e, per volere di Pompeo, intervenne in favore di Gabinio, il quale, in precedenza, aveva contribuito al suo esilio.

I rapporti fra i tre triumviri si deteriorarono gradualmente. Tale orazione mostra che, in quegli anni, la situazione politica di apparente equilibrio celava da un lato il desiderio di coloro che, come Clodio, avevano visto i propri interessi trascurati durante gli accordi di Lucca, dall'altro la ritrosia dei personaggi politici più in vista ad assumere posizioni esplicite e compromettenti.

Protagonista dell'orazione è Marco Emilio Scauro, figlio di Marco Emilio Scauro. Fu questore di Pompeo durante la guerra mitridatica, marciò in Giudea e in Nabatea. Nel 58 a.C. divenne edile curule e la magnificenza della sua edilità è ribadita da Cicerone:

«A te dunque, Scauro, faccio queste domande, particolarmente a te, che hai fatto celebrare dei giochi splendidissimi e fastosissimi.[1]»

Dopo la pretura del 56 fu inviato in qualità di propretore in Sardegna. Ritornato a Roma verso la fine di giugno del 54, pose la sua candidatura al consolato dell'anno successivo. Nello stesso periodo, Scauro fu accusato de repetundis da Publio Valerio Triario, un giovane oratore, per incarico dei provinciali. L'accusa di concussione mossa a Scauro coincideva con il momento in cui egli, allo scadere del suo mandato propretoriale in Sardegna, aveva posto la sua candidatura al consolato. Si tratta, dunque, di un processo di natura politica come sottolinea Cicerone:

«Ma tutta codesta fretta affannosa che t’ha portato a eliminare l’inchiesta istruttoria e a sbarazzarti dell’intera prima udienza, non ha fatto altro che mettere in chiarissima luce una realtà che del resto non era ignota: che cioè questo processo non è stato messo su avendo di mira la giustizia, ma i comizi consolari[2]»

Contenuto dell'orazione

modifica

L'orazione si apre con la presentazione delle accuse extra causam rivolte a Scauro e la relativa confutazione da parte di Cicerone. Scauro era stato accusato di aver fatto uccidere Bostare, un ricco cittadino di Nora, per impossessarsi dei suoi beni. Secondo l'accusa di Triario, Bostare sarebbe stato invitato a tavola e avvelenato. Scauro, inoltre avrebbe indotto al suicidio la moglie di Arine, dopo averla insistentemente insidiata. Cicerone, a tal proposito, per difendere il suo assistito, riporta le dicerie secondo cui sarebbe stato lo stesso Arine a far uccidere la moglie per poter sposare la madre di Bostare. Arine, probabilmente, aveva affidato l'infausto compito a un liberto che avrebbe agito durante i Parentalia, quando gli abitanti erano usciti dalla città per tributare l'omaggio ai propri cari.

Il terzo capo di imputazione è quello di malversazione ai danni della Sardegna. L'accusa principale riguarda le estorsioni sulle esazioni di grano. Cicerone riuscì a dimostrare l'infondatezza di tale accusa, dichiarando, innanzitutto, che in Sardegna non era stata effettuata una vera e propria inchiesta. Egli accusava Triario di non aver svolto le dovute indagini, contrariamente a quanto lo stesso Cicerone aveva fatto in Sicilia per il processo contro Verre. Cicerone si vanta di essersi recato personalmente in Sicilia e di aver svolto le indagini con diligenza, in modo tale da offrire ai giudici una visione precisa e tangibile di quanto era accaduto:

«Ho percorso, Triario, nel cuore dell’inverno assai inclemente, le vallate e le alture di Agrigento. E fu proprio la notissima e fertilissima piana di Lentini che da sola quasi quasi mi istruì il processo: entrai nelle casupole dei contadini; gli agricoltori mi parlavano senza togliere la loro mano dall’impugnatura stessa dell’aratro. E così quella causa venne esposta in modo che i giudici avevano l’impressione non già di ascoltare quanto dicevo, ma di vederlo e quasi di toccarlo con mano: chè non mi sembrava né lodevole né onesto che, dopo aver accettato la difesa della più fedele e antica delle province, mi ponessi nella mia camera a studiare la causa come fosse quella di un solo cliente.[3]»

L'oratore, poi, fa leva sull'inattendibilità della testimonianza dei Sardi. La Sardegna, sottratta a Cartagine nel 238 a.C. e organizzata con la Corsica come provincia nel 237 a.C., fu trattata sempre come terra di conquista: inviava a Roma grano e tributi e rimase un'importante riserva di grano per tutta l'antichità. La Sardegna e la Sicilia, infatti, erano le due province frumentarie più importanti. I Romani disprezzavano i Sardi e in età repubblicana non concessero loro alcuna città libera: nessuna città sarda godette di autonomia comunale, tutte furono sottoposte al pagamento della decima. Cicerone sottolinea il disprezzo nei confronti della popolazione sarda dicendo:

«La razza più ingannatrice, come ci attestano tutti i documenti dell’antichità e tutte le opere storiche, è quella dei Fenici. I Punici, loro discendenti, non si sono mostrati, se pensiamo alle molte ribellioni di Cartagine, alle numerose violazioni e rotture di patti, figli degeneri. I Sardi, che discendono dai Punici grazie a un incrocio di sangue africano, non sono stati condotti in Sardegna come normali coloni ivi stanziati, ma come il rifiuto di coloni di cui ci si sbarazza.[4]»

L'orazione si conclude con la perorazione: l'attenzione di Cicerone è rivolta alle imprese della famiglia del proprio assistito, imprese che garantiscono l'onestà e la dedizione allo stato. L'oratore afferma con vanto che:

«Gli argomenti in difesa di Marco Scauro mi vengono in abbondanza da ogni parte, dovunque volga non solo il pensiero ma pure soltanto gli occhi.[5]»

In particolare Cicerone rievoca la figura del padre, Marco Emilio Scauro, che aveva ricoperto la carica di Princeps senatus e quella dell'avo Lucio Metello che ricostruì il tempio di Castore e Polluce con il bottino ricavato dalla vittoria sui Dalmati. Un altro antenato illustre ricordato da Cicerone è Lucio Metello, pontefice massimo, che salvò, da un tempio in fiamme, la statua di Pallade, che era sotto la protezione di Vesta.

Osservazioni

modifica

L'assoluzione di Scauro avviene il 2 settembre ed è plebiscitaria: secondo Asconio votarono a favore 60 giudici su 68. La condanna di Scauro avrebbe reso più semplice la strada verso il consolato ai suoi competitori G. Memmio Gemello e Gneo Domizio Calvino sostenuti da Cesare e legati da una alleanza. I due cesariani erano anche appoggiati da Appio Claudio, console in carica, che era stato predecessore di Scauro nel governo della Sardegna. Egli aveva partecipato al convegno di Lucca svoltosi nel 56 ed era riuscito a conquistarsi il favore dei triumviri.

Appio Claudio fu promotore dell'inchiesta giudiziaria che si svolse a Roma tra la fine di agosto e gli inizi di settembre. Il tribunale era presieduto da Marco Porcio Catone l’Uticense. Scauro nella sua ascesa politica era supportato dai Sillani, in quanto la madre Cecilia Metella si era risposata con Silla. Egli, inoltre, poteva contare sul ricordo del padre Marco Emilio Scauro che, evitando di trarre profitto dalle persecuzioni sillane, si era rivelato un uomo onesto.

Il collegio della difesa era formato da sei avvocati: Cicerone, Quinto Ortensio, Publio Pulcro Clodio, Marco Marcello, Marco Calidio, Marco Messalla Nigro. Vi erano anche nove consolari come testimoni, i laudatores. L'imputato poteva ricorrere anche ai laudatores che lo difendevano con argomenti che rappresentavano la loro testimonianza, fra questi vi era anche Pompeo. I membri del collegio rappresentavano le diverse correnti politiche il cui obiettivo comune era intralciare l'azione di Cesare.

Riguardo al ruolo di Pompeo in questo processo, ci sono diverse interpretazioni:

  • Asconio considera il ruolo di Pompeo non di rilevante importanza in quanto una rottura nell'equilibrio triumvirale in quel momento si sarebbe rivelata per lui dannosa.
  • Partecipando al collegio di difesa, Pompeo si sottraeva al pericolo di inimicarsi i Sillani.
  • Probabilmente stava già nascendo un'intesa tra Pompeo e il partito senatorio.
  • Il padre di Pompeo, Gneo Pompeo Strabone, aveva difeso Tito Albucio accusato dai Sardi di concussione. Questo significa che vi era una clientela politica fra coloro che erano interessati allo sfruttamento della Sardegna.

Interessante è la presenza di Clodio nel collegio della difesa: la sua partecipazione manifesta la sua volontà di schierarsi contro Cesare dal quale aveva pensato di ricevere riconoscenza per l'attività svolta in suo favore, in qualità di tribuno, in particolare l'aver contribuito all'esilio di Cicerone. Cesare, però, non era stato favorevole a concedergli una legazione in Asia.

Anche la posizione politica di Appio Claudio, fratello di Clodio sembra ambigua: egli è promotore dell'inchiesta e quindi si schiera dalla parte di Cesare, ma cerca di non suscitare l'ostilità di Pompeo. Curioso è il comportamento di Cicerone nei confronti di Appio: più volte l'oratore aveva denunciato l'inimicizia di Appio, in questa occasione, invece, lo tratta con riguardo per non inimicarselo. Per tale motivo fa finta di credere che Appio si era schierato contro Scauro per sostenere il fratello Clodio, che rischiava di non essere eletto per la carica di console.

Si pensa che Cicerone abbia accettato la difesa di Scauro per sostenere gli interessi del partito senatorio, e non per dimostrare una particolare fedeltà a Pompeo. Si presume che egli volesse ristabilire un equilibrio incrinatosi negli anni precedenti in cui aveva composto due orazioni De provincis consularibus e Pro Balbo, in cui manifestava approvazione per il triumvirato e in particolar modo per Cesare. Sostenendo la causa di Scauro, Cicerone tornava a schierarsi dalla parte della nobilitas.

Scauro, in seguito, fu accusato de ambitu dallo stesso Triario e nonostante fosse ancora Cicerone a difenderlo, fu condannato e andò in esilio nel 52 a.C. L'accusa avvenne in base alla lex Licinia, promulgata nel 55 a.C., la quale riguardava il crimen sodaliciorum cioè di associazione a scopo di scambio illecito di voti.

Cicerone considera la Pro Scauro una delle sue orazioni più belle, come ricorda nelle lettere:

«Avendolo io difeso (cioè Scauro) in modo molto elegante.[6]»

  1. ^ Ex te igitur, Scaure, potissimum quaero, qui ludos apparatissimos magnificentissimosque fecisti. Cfr. Cic. Pro Sestio,116.
  2. ^ Sed omnis ista celeritas ac festinatio, quod inquisitionem, quod priorem actionem totam sustulisti, illud patefecit et illustravit, quod occultum tamen non erat, non esse hoc iudicium iudici, sed comitiorum consularium causa comparatum. Cfr. Cic. Pro Scauro, 14.
  3. ^ Peragravi, inquam, Triari, durissima quidem hieme vallis Agrigentinorum atque collis. Campus ille nobilissimus ac feracissimus ipse me causam paene docuit Leontinus. Adii casas aratorum, a stiva ipsa homines mecum colloquebantur. Itaque sic fuit illa expressa causa non ut audire ea quae dicebam iudices, sed ut cernere et paene tangere viderentur. Neque enim mihi probabile neque verum videbatur me, cum fidelissime atque antiquissimae provincae patrocinium recepissem, causam tamquam unius clientis in cubiculo meo discere. Cfr. Cic. Pro Scauro, 11.23.
  4. ^ Fallacissimum genus esse Phoenicum omnia monumenta vetustatis atque omnes historiae nobis prodiderunt. Ab his orti Poeni multis Carthaginiensium rebellionibus, multis violatis fractisque foederibus nihil se degenerasse docuerunt. A Poenis admixto Afrorum genere Sardi, non deducti in Sardiniam atque ibi constituti, sed amandati et repudiati coloni. Cfr. Cic. Pro Scauro, 19.42.
  5. ^ Undique mihi suppedidat quod pro M. Scauro dicam, quocumque non modo mens verum etiam oculi inciderint. Cfr. Cic. Pro Scauro, 23.46.
  6. ^ Cum ego partem eius ornatissime defendissem. Cfr. Cic. Epistulae ad Attacum, IV 17,4.

Bibliografia

modifica
  • AA.VV., Dizionario di antichità classiche di Oxford, edizione italiana a cura di Mario Carpitella, Roma, Edizioni Paoline, 1963.
  • Asconius, Commentaries on Five Speeches of Cicero, a cura di Simon Squires, Bolchazy-Carducci Publishers and Bristol Classical Press, 1990.
  • Emanuele Narducci, Introduzione a Cicerone, Roma-Bari, Laterza, 2005.
  • (LAIT) M. Tullio Cicerone, Orazione in difesa di M. Emilio Scauro, in Le orazioni, traduzione di Giovanni Bellardi, vol. 3, Torino, UTET, 1975, pp. 937-976, ISBN 88-02-02406-5.
  • Marcus Tullius Cicero, Pro M. Aemilio Scauro oratio, a cura di Alfredo Ghiselli, Bologna, Riccardo Patron, 1969.
  • Marcus Tullius Cicero, L'orazione per Gneo Plancio ; L'orazione per Marco Emilio Scauro ; L'orazione per Gaio Rabirio Postumo / Marco Tullio Cicerone, a cura di Ettore Lepore, Francesco Casorati, Enzo Nencini, Milano, Mondadori, 1985.
  • Paolo Fedeli, Il sapere letterario. Autori, Testi, Contesti della cultura romana, Napoli, Fratelli Ferraro Editori, 2003.
  • Thomas Robert Shannon Broughton,The magistrates of the Roman Republic, New York, edito da Phillip H. Delacy, 1952.

Collegamenti esterni

modifica

http://www.thelatinlibrary.com/cic.html: contiene il testo in latino dell'orazione Pro Scauro.

Controllo di autoritàVIAF (EN307507841 · BAV 492/3041 · LCCN (ENn85254385 · GND (DE4340145-4 · BNF (FRcb166632921 (data) · J9U (ENHE987007371609205171