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Neve sottile
Al primo fiocco di neve, sollevò lo sguardo al cielo: le nuvole erano state spinte dal vento e si erano addensate sopra la città, oscurando con un mantello grigio il sole di quel rigido inverno. Doveva rientrare presto alla sala da tè, prima di congelarsi tutte le dita.
Naomi si chiuse la pelliccia al collo e sollevò l’ombrellino per aprirlo sopra di sé; il rumore dei suoi geta schioccava sul legno del ponte rialzato, ma ogni eco veniva inghiottita dal freddo dell’aria che creava un silenzio rigido, permanente.
Persino l’acqua del fiume sembrava più lenta del solito, forse costretta in un forzato letargo, così come tutta Yokohama. Trovò un solo passante al di là del ponte, troppo impegnato a chiudersi nel proprio kimono per prestare anche solo un’occhiata di attenzione a lei o al trucco vistoso che le abbelliva il viso.
Avrebbe trovato i suoi clienti ad aspettarla, forse, attorno ai tavolini bassi, dove l’atmosfera era più mite per i vapori e la musica e i balli. Era inutile che indugiasse oltre, aveva camminato già troppo.
Un altro fiocco di neve cadde, si ritrovò a fissarlo senza motivo mentre scendeva a terra e si scioglieva in una pozzanghera. In quel silenzio, sentì un passo maldestro, qualcosa muoversi.
Dovette fare più attenzione per capire da dove provenisse: c’era una via stretta tra due edifici di legno, a lato della strada. Un secondo rumore, qualcosa che si trascinava nella fanghiglia, non poteva essere certo un gatto o un animale di quelle dimensioni.
Non era ancora in ritardo, si ricordò, fino a che una leggera brezza non le morsicò le caviglie dei piedi e si arrampicò per la lunghezza delle gambe, facendola tremare di freddo. E si voltò, con le spalle rivolte verso la strada grande, le spalle che tremavano appena.
Ma qualcosa la richiamò indietro, e non le permise neanche un passo in avanti. Non ci fu alcun rumore, eppure lei sentì distintamente un richiamo verso quel cunicolo – una scia rossa invisibile, qualcosa che la attirava con forza.
I suoi geta non fecero alcun rumore nella fanghiglia, si avvicinò con cautela all’inizio del cunicolo e si sporse in avanti, rimanendo riparata dall’angolo dell’edificio.
Vide i piedi nudi di un uomo, dietro a delle casse vuote di legno, e i segni neri sulla sua pelle, i bordi strappati e sporchi di un kimono troppo corto, che non gli arrivava alle ginocchia. Poteva davvero essere chiunque.
Naomi strinse le dita arrossate attorno al manico del suo ombrellino, e fece altri due passi; l’uomo la sentì e ritirò le gambe, irrigidì i propri muscoli, ma non si mosse da terra: doveva essere ferito.
Allora, Naomi fece un altro passo, e finalmente vide la sua espressione stanca, i capelli rossastri e gli occhi ambrati.
Lei trattenne il respiro, non sapeva dire come ma conosceva già quell’uomo, sapeva bene chi fosse.
Le mani di lui che erano corse all’elsa della spada ammorbidirono la presa e le sue spalle si abbassarono; l’aveva riconosciuta a sua volta.
Naomi si chinò a terra, senza più alcuna paura. «Ciao.»
Junichiro le sorrise con le labbra spaccate a metà, il viso su cui si raggrumava sangue ormai seccato dal freddo. «… ao.»
Era ancora suo.
Naomi tese l’ombrello e lo coprì dal cadere della neve.
Quel gelo avrebbe ingoiato anche il suono delle loro anime che si incontravano per l’ennesima volta.
*****
Si svegliò sentendo il rumore del battito del suo cuore: il suono più bello.
Naomi aprì le palpebre nella penombra della stanza da letto, strofinando la guancia contro il petto di lui. Le dita ancora intrecciate alle sue erano sul materasso, poco distante dalla sua spalla, mentre l’altro braccio di Junichiro le circondava le spalle.
Lui si svegliò appena mosse i piedi sui suoi. «Sei fredda…»
Non si mosse però, e le pettinò i capelli – il suo cuore era ancora calmo, tranquillo. Sarebbe rimasta volentieri così per sempre.
«Oggi non devi andare a lavoro, vero?»
«È Natale, l’Agenzia è chiusa.»
«Anche scuola!» Sorrise. «Possiamo uscire assieme, allora. Portami da qualche parte a mangiare qualcosa di buono, fratellone!»
Quelle parole gli erano uscite di bocca prima che potesse anche solo pensarci, ma si rese conto da sola quanto potessero ferirlo: erano soli e nessuno li sentiva, non c’era davvero bisogno di fingere.
Lo sentì sogghignare piano, divertito dal suo entusiasmo, come sempre. Junichiro era sempre così, prendeva solo la parte bella di lei e la trattava come se fosse un tesoro.
«Certo, certo. Hanno fatto un enorme albero di Natale in centro, possiamo andare a vederlo.»
«Davvero?»
Le pettinò ancora i capelli con una carezza e sospirò. Naomi intrecciò le gambe con le sue e si alzò sul gomito per guardarlo meglio.
Avrebbe spazzolato quei capelli sparpagliati appena si fossero alzati entrambi – adorava farlo, e lui diceva sempre di adorare lasciarglielo fare. Junichiro la guardò con occhi assonnati, socchiusi, con il sorriso più bello. «Ehi.» Alzò la mano per accarezzarla sul viso, lei appoggiò la guancia contro il palmo della sua mano. Era davvero suo.
«Non ti pesa, vero?»
«Cosa?» Ma Junichiro sapeva benissimo cosa, lo sentiva dalla voce.
Naomi riaprì gli occhi. «Mentire, sempre.»
Junichiro le rispose senza aspettare. «No.»
Anche quella sicurezza, in realtà, le pesava. La rendeva felice in un modo che non sapeva neanche descrivere, ma allo stesso tempo sentiva di star obbligando Junichiro a rimanerle accanto alle sue condizioni.
Gli baciò il palmo della mano, e lui le accarezzò la testa, attirandola a sé. Il suo respiro calmo si fermò solo quando le diede un bacio, leggero, all’angolo della bocca.
Si sentì avvampare e lui le sorrise. «Ci dobbiamo alzare, se vogliamo uscire per pranzo.»
«Solo un altro po’, per favore…»
Naomi lo abbracciò ancora più stretto.
Junichiro socchiuse gli occhi e sospirò, il primo giorno di riposo era sempre quello più difficile perché tornava a galla tutta la stanchezza accumulata negli ultimi giorni di lavoro. Per fortuna, l’Agenzia sarebbe rimasta chiusa fino a lunedì – conveniente per tutti loro che quell’anno il 25 Dicembre cadesse di Venerdì.
Un cameriere passò rapido accanto al suo tavolo, trasportando un vassoio carico di coppe gelato e una teiera con due tazze bianchissima, non il suo ordine davvero. Un paio di ragazze qualche metro più in là si aprirono in smaglianti sorrisi, ben felici di mangiare tutte quelle fragole e tutta quella panna.
Picchiettò le dita sul tavolo, finché non sentì i suoi passi avvicinarsi, e tutto riacquistò di bellezza e colore non appena Naomi tornò da lui. «Scusami, in bagno c’era una fila lunghissima!»
«Non ti preoccupare, non ho aspettato tanto, e non è ancora arrivato nulla.»
Lei si sistemò accanto a lui, sulla sua stessa poltroncina, e subito gli abbracciò il braccio. «Naomi…»
Lei ridacchiò. «Fratellone, qui è più comodo!»
Oh, avrebbe creato l’illusione di un intero mondo solo per loro, se questo le avesse permesso di essere davvero felice.
Si inclinò di lato. «Abbiamo preso apposta questi posti perché guardassi fuori…» E fece un cenno con la testa alla finestra, da cui si vedeva l’intera piazza circolare e l’albero di Natale addobbato con palline azzurre e dorate, festoni d’argento scintillante.
Le guance di lei si arrossarono. «Lo vedo bene anche qui, non ti preoccupare!»
Lo strinse di più, si avvicinò con le gambe – qualche bisbiglio, ma nessuno sguardo verso di loro. Andava bene così.
Il cameriere si avvicinò un po’ perplesso a loro. «Signori, il vostro ordine.»
Omelette per lei, cioccolata calda per lui. Naomi subito provò a imboccarlo, e i bisbigli divennero di più, qualche sguardo scivolò veloce sul suo viso contratto dal finto terrore. Più sarebbe stato convincente, meno persone avrebbero avuto il coraggio di por loro domande.
Quindi cercò di scivolare via da quelle mani calde, le chiese di smetterla con voce sottile, alzò gli occhi al cielo a una deliberata avance senza il minimo pudore.
Partì una canzoncina di Natale dagli autoparlanti del piccolo bar, allegra e festosa.
Naomi abbassò la forchettina nel piatto, guardando fuori. «Ah, c’è la neve!»
Junichiro si distrasse, volse lo sguardo nella stessa direzione di lei: dal cielo grigio sopra Yokohama, erano cominciati a scendere i primi fiocchi bianchi. Sembrava fatto apposta per loro.
Approfittando di quel momento di distrazione, le prese la forchettina dalle dita e si servì da solo – lei lo guardò dapprima sorpresa, colta alla sprovvista. Allora, le sorrise. «Buona, dovresti proprio mangiarla tu.»
Naomi sorrise grata, con le guance appena appena arrossate, e inclinò il capo di lato, in modo che la sua frangia scoprisse un poco la fronte. Le avrebbe posato un bacio proprio lì, quella sera, se lo promise.
****
I legamenti del bacino mandarono un sibilo di avvertimento, e la spia di allarme risuonò nelle sue orecchie: dalla caduta che aveva fatto, il suo corpo non ne era uscito del tutto intero. Junichiro non rallentò il passo e si avvicinò al pannello di controllo che fuoriusciva dalla parete, ne aprì di forza lo sportello.
Appoggiò la mano meccanica sopra il display pieno di luci e fili, e subito dai suoi polpastrelli partì l’innesto elettrico, che si propagò tutt’attorno a lui, all’intera struttura che lo inglobava. Chiuse le palpebre e fece scorrere le informazioni, attraverso i canali metallici che collegavano i suoi arti al cervelletto artificiale.
Codici e numeri, così era la lingua della robotica nel 2510 – e per un nato robot come lui, non era poi così difficile trovare le informazioni che cercava. Ricostruì la mappa dei corridoi e delle sale, dei vari piani che si sostenevano l’un sull’altro.
Atsushi si trovava al piano superiore, da cui era scappato, e stava intrattenendo ancora le due guardie che li stavano rincorrendo. Ranpo all’ultimo pieno, Fukuzawa sul terrazzo del settimo piano.
Scavò più a fondo nel programma di sicurezza, superando le password e le barriere con niente. Aprì tutte le porte, e la trovò la chiave della sala del laboratorio proprio dove era più facile trovarla, senza niente a proteggerla.
Gli fece rabbia, per qualche ragione – come se loro, i robot, non valessero poi neanche quello. Ma almeno, l’avrebbe salvata.
Si sconnesse dal pannello di comando, riaprì gli occhi. Trascinò la gamba rotta lungo il corridoio scuro, sopra la sua testa le luci al neon scattavano incontrollate, oscurando e illuminandogli la via in modo alternato.
Il laboratorio a destra, lì dovette andare. Non c’era più alcun umano ad attenderlo, erano già scappati tutti, da quando l’allarme aveva segnalato la loro entrata dentro la struttura.
Li chiamavano l’Agenzia dell’annientamento, i nati robot che avrebbero surclassato l’intera struttura sociale, ma la verità è che di quegli esseri umani a Junichiro non interessava proprio niente. Delle loro vite, delle loro morti, delle loro paure e del loro terrore, non interessava proprio niente.
Sapeva di essere dalla parte giusta, perché c’era sempre stato un legame silente che lo aveva avvicinato al signor Fukuzawa, qualcosa che non aveva mai avuto un vero nome ma che gli aveva sempre impedito di andare via, anche quando le cose si erano fatte pericolose per lui. Quegli esseri umani avevano il potere di decidere se spegnerlo o lasciarlo attivo – ma anche di questo, a Junichiro, poco importava.
Si dovette appoggiare alla prima vasca verticale, perché le sue gambe non lo stavano più reggendo; aveva spento l’allarme interno, aveva capito che non si sarebbe più retto in piedi a momenti e che il suo corpo sarebbe collassato in scintille nere.
Vide con sguardo distratto il grumo di cellule immerso nel brodo artificiale, il primo stadio degli esperimenti sugli umanoidi che si tenevano lì. Ebbe un brivido, e si ricordò di cosa gli aveva detto Atsushi riguardo i “sentimenti”. Aveva paura.
Camminò ancora, e ancora, ogni vasca un nuovo terrore, seguendo quell’invisibile filo rosso che lo aveva portato fin lì, finché non arrivò all’ultima vasca, e trovò lei dentro. Lo stava aspettando: lo guardò, mentre si avvicinava ancora di più.
Solo il busto aveva un aspetto umano, mentre da spalle e bacino si allungavano filamenti e protesi metalliche non ancora del tutto complete, abbozzate lì dove la struttura si faceva più complessa. Se l’avesse tolta dall’acqua, sarebbe sopravvissuta.
Naomi, la sua Naomi, alzò comunque il braccio e appoggiò le due dita della sua mano sopra il vetro, per salutarlo. Junichiro appoggiò la propria, di mano, alla stessa altezza della sua, creando la connessione elettrica.
Lei lo sentì.
«Ti porto fuori, Naomi. A vedere la neve.»