Chapter Text
Allora.
È ovvio che anche io andai alla festa, vi pare? Nei giorni successivi non feci altro che ripetere a Giovanni, Cesare, Livio e al Signor Bennet di quanto non riponessi il benché minimo interesse nel fare la conoscenza dei nuovi vicini, e che se avessi infine deciso di andare alla festa sarebbe stato unicamente per la coincidenza con il compleanno di Carlo di Luca; ciononostante, mi ritrovai quel sabato sera davanti allo specchio a decidere quale giacca stesse meglio su quale camicia, e quale pantalone abbinare a quale paio di scarpe. Rimpiangevo con tutto il cuore i miei improvvisi sentimenti ipocriti, eppure dovevo ammettere a me stesso che fremevo dalla curiosità di incontrare la fantomatica nuova affittuaria del Palazzo di Fronte.
Perciò cercai di non prendermela troppo quando Giovanni passò tutto il pomeriggio a ridere di me, dicendomi che neanche per un solo istante aveva dubitato che anch'io infine fossi interessato a tutta quella questione.
«È solo colpa vostra se mi avete messo la curiosità!» gli dissi, lanciandogli addosso la camicia che avevo escluso.
«"Vostra"? Cosa c'entro io, esattamente?» mi rispose lui, iniziando a lisciare la camicia e ripiegarla.
«Sta a vedere. Metterò il broncio per tutta la sera e farò in modo di non divertirmi neanche un po'» aggiunsi.
«Sì certo, aspetta che ci credo» mi canzonò lui. Ero d'accordo, ovviamente, ma non gli diedi la soddisfazione di dargli ragione.
«Alla fine non è una brutta festa, no?» mi gridò Carlo nell'orecchio, porgendomi una bottiglia di birra. L'accettai ringraziandolo, ma dentro di me pensai che una cioccolata calda sarebbe stata molto più gradita, considerando l'aria gelida: nonostante la calca di gente, i respiri di tutti si trasformavano in nuvolette di vapore trafitte dalle luci laser.
«Diciamo di no!» gli gridai in risposta. «Sicuramente meglio del tuo scorso compleanno!».
Lui scoppiò a ridere e mi diede una gomitata di scherno. Carlo abitava nel nostro stesso palazzo, al secondo piano, con i suoi genitori, suo fratello e sua nonna. Erano certamente i nostri vicini preferiti: il Signor Bennet andava a prendere il caffè regolarmente dai di Luca, e io e Carlo eravamo col tempo diventati migliori amici.
Gli diedi un colpetto sul cappellino da festa a punta che la signora Tonetti lo aveva obbligato ad indossare. «Però ti prenderò in giro per sempre per questo coso. Ti fai convincere un po' troppo facilmente» gli dissi.
«Mi ha praticamente supplicato!» mi urlò di rimando. «Se lo avesse messo in testa anche al Signor Bennet, adesso sapremmo dove cavolo si è andato a cacciare!».
Scossi la testa per mostrare il mio disappunto condiviso. Avevamo infatti perso di vista tutti i miei coinquilini nell'esatto momento in cui avevo trovato Carlo in mezzo alla folla (facilmente individuabile grazie a quel suo cappello imbarazzante). Appena scesi in giardino, Cesare e Livio si erano dileguati alla ricerca di persone con cui ballare; ogni tanto li vedevamo spuntare con nuova gente a braccetto, per lo più ragazze. Giovanni si era immediatamente dato al loro inseguimento: conoscendo la facilità con cui quei due si mettevano nei guai, era perfettamente consapevole che avessero bisogno di qualcuno che li tenesse d'occhio. Il Signor Bennet invece aveva iniziato a spostarsi di gruppetto in gruppetto, per salutare tutte le famiglie e le persone che conosceva, facendo ben attenzione a non perdersi nessun nuovo arrivato, onde evitare di perdersi l'arrivo degli inquilini del Palazzo di Fronte; al tempo stesso controllava chiunque andasse via prima di quanto fosse socialmente convenevole. Nel frattempo DJ Tony sparava musica elettronica come se il mondo sarebbe finito il giorno dopo, per cui avesse l'impellente necessità di lasciare un ultimo ricordo delle sue memorabili feste. Ogni tanto gridava parole e frasi senza senso logico nel microfono, come "oh yeah!" o "dateci dentro!", e risentivo la sua voce riverberarmi fin nelle ossa ma sì, contro ogni previsione e ogni mia volontà, mi stavo divertendo.
«Sai, non pensavo che conoscessi così tante persone da invitare al tuo compleanno» gridai nell'orecchio di Carlo.
«Vero, eh?» rise lui, percependo il mio sarcasmo. «Credo che almeno i tre quarti delle persone che sono qui non hanno la più pallida idea del motivo per cui stiamo festeggiando»
«Penso che il loro interesse si sia fermato alla parola "rave"»
«Brutta storia!»
«Ah, non fartene un cruccio, perché-»
Ma non ebbi mai modo di concludere la mia sagace battuta, dal momento che Lucia, la madre di Carlo, lo aveva afferrato e tirato per una manica del giubbotto, trascinandoselo dietro senza troppe cerimonie. Stavo per sporgermi in aiuto del mio amico, ma qualcuno iniziò a spingermi violentemente per le spalle. Non ebbi bisogno di girarmi per sapere che il mio aggressore era il Signor Bennet.
«Si può sapere a cosa dobbiamo questo agguato?» gridai, cercando di stare al passo imposto dalla fretta di John. Lui mi zittì con un sonoro ed inglesissimo «shush!». Poi allungò un braccio tra la gente e acchiappò i gemelli. A mente mi chiesi come avesse fatto a pescarli così facilmente, ma non feci domande; se non altro aveva finalmente lasciato la presa dalle mie spalle. Giovanni spuntò al mio fianco. «Dove andiamo?» chiese, preoccupato. Io scossi la testa.
Il Signor Bennet e la signora di Luca ci stavano indirizzando verso un gruppetto di sconosciuti che se ne stava in disparte, in un angolino benedetto dall'assenza di gente. Quando li raggiungemmo fui se non altro felice di poter respirare di nuovo aria non condivisa da altra gente.
Diedi un'occhiata a quei personaggi, e iniziai a collegare i puntini: ci avrei scommesso l'anima e uno dei miei fratelli che eravamo al cospetto di nientepopodimeno che l'allegra combriccola del Palazzo di Fronte.
«Miei carissimi ragazzi» cominciò il Signor Bennet, con un sorriso smagliante sulla faccia. Avrei voluto sotterrarmi. Niente di buono avrebbe mai potuto cominciare con quelle parole e quello sguardo al limite della psicopatia. Sentii Giovanni, accanto a me, irrigidirsi, e capii che eravamo sulla stessa lunghezza d'onda. Carlo sembrava calmo e rilassato come al solito. I gemelli... i gemelli erano i gemelli: si aggiustavano i capelli con le dita, fingendo gesti distratti, poi gettavano le mani nelle tasche dei giubbini. Ho già detto che avrei voluto sotterrarmi?
«Queste meravigliose persone sono Charlotte Benguigui...» ed indicò con la mano una ragazza molto carina, alta, dai capelli lunghi e rossi e gli occhi chiari, il volto pieno di lentiggini ed un'espressione gentile sul viso. Ci salutò con un sorriso dolce ed un mezzo "ciao" sussurrato timidamente. Non esattamente come me l'ero immaginata.
«...suo fratello minore Corentin Benguigui...» indicò a questo punto un ragazzo alto, più alto di Charlotte, anche lui rosso e di bell'aspetto, che ci degnò di un lieve cenno del mento ed un'alzata di sopracciglia.
«...suo fratello Louis Benguigui e sua moglie Ursula di Battista...» e fece un cenno cortese ad una coppia a braccetto all'estrema sinistra. La signora mi sembrò cordiale ed educata, ci salutò vivacemente con una mano sventolante ed un «Molto piacere!» allegro, a dispetto del marito che fece giusto un sorriso.
«...ed infine la signorina Guglielmina D'Arco, amica di famiglia». Indicò infine la ragazza con i capelli neri e il viso terribilmente perfetto che avrebbe potuto benissimo appartenere ad una scultura greca. Non vidi di che colore avesse gli occhi, dal momento che era impegnatissima a pigiare i tasti del telefono con entrambi i pollici. Ho i miei dubbi che si fosse accorta della nostra presenza, o anche del fatto che si trovasse ad una festa di quartiere. Non ci fece alcun segno, non disse nulla, non fiatò e non alzò gli occhi dallo smartphone. Persino il Signor Bennet non seppe bene cosa fare, e cadde un silenzio alquanto imbarazzante.
Onestamente non so cosa si aspettasse John da noi. Insomma, eravamo un branco di studenti di cui la metà mezza ubriaca (e sì, sto parlando di Cesare e Livio. E forse anche lui, a questo punto) costrette di fronte a delle persone sconosciute, super ricche, e di certo non abituate ad un'assurda accozzaglia di normalissima gente di paese. Il disagio era talmente palpabile che mi sembrò che DJ Tony avesse abbassato il volume della musica, giusto per farci vergognare un po' di più.
«Questo è mio figlio Carlo, di cui vi parlavo» disse la signora Di Luca. Carlo iniziò a stringere mani, e ricevette anche un paio di "tanti auguri". «L'altro mio figlio, Mario, è rimasto a casa. Non si sentiva molto bene» si premurò di aggiungere, come se fosse un'informazione di vitale importanza. Le fui grato, però, per aver messo fine a quel momento di stallo.
«Loro sono i miei coinquilini» disse il Signor Bennet, di colpo ripreso. «Cesare, Livio, Giovanni ed Elio Benedetti».
«Oh! Siete tutti fratelli?» chiese gentilmente Charlotte.
«Sì» risposi.
«E vivete tutti insieme? Che cosa strana» disse Corentin. Decisi che non mi era molto simpatico. La sorella gli diede una gomitata nel fianco. Decisi che mi era simpatica.
«Già, è un po' difficile restare sani di mente. Se non altro non dobbiamo organizzarci per festeggiare il Natale» dissi. Charlotte, i coniugi Benguigui, tutta la mia comitiva e persino Corentin risero alla battuta. Guglielmina D'Arco continuò imperterrita a comporre cose sul touch screen. Pensai che i genitori dovessero essere delle persone molto strane, per aver dato un nome così antiquato alla figlia; forse era quasi perdonabile quel comportamento antipatico.
Come se mi avesse letto nel pensiero, dopo qualche altro secondo di silenzio imbarazzato, la ragazza si azzardò a degnarci di uno sguardo. Le lessi negli occhi un'aria di superiorità che non mi piacque per niente. Ci guardò dall'alto in basso, come se fossimo cacca calpestata. «Le persone mi chiamano Mina» disse, come se avesse totalmente perso un pezzo di conversazione e fosse rimasta alle presentazioni. Alzai le sopracciglia e repressi una risata. Probabilmente se ne accorse, perché mi guardò in cagnesco.
«Bene!» esclamò il Signor Bennet, battendo le mani. La musica parve tornare a gridarci nelle orecchie con fare prepotente. Anche Giovanni si sciolse, lo vidi rilassare le spalle e sorridere, e così mi tranquillizzai. Non è mai stato molto bravo a socializzare, quindi immaginai che si fosse tolto un peso dal cuore, finita tutta quella sciarada. Peccato che il Signor Bennet fosse un uomo senza pietà. «Forza Giovanni! Porta la signorina Charlotte a ballare, facciamole vedere com'è una festa come si deve!». Giovanni in risposta si strozzò con la propria saliva. Io non ce la feci più e scoppiai a ridere, iniziando a battergli manate sopra la schiena. Charlotte sorrise timidamente, ma guardò con tenerezza mio fratello. Sperai che non lo stesse prendendo mentalmente in giro. I gemelli, invece, avevano uno sguardo offeso; credo che se la fossero presa con John per non aver proposto loro, piuttosto che il fratello maggiore. Pertanto salutarono e tornarono nella mischia a cercare ragazze con cui scatenarsi.
«Mi farebbe molto piacere» disse Charlotte, avvicinandosi a Giovanni e prendendolo a braccetto. Si inoltrarono nella folla, e feci in tempo a carpire uno sguardo di aiuto sulla faccia di mio fratello. Non me ne preoccupai: conoscendolo, ero certo che si sarebbe divertito. Decisi però di non perderlo di vista. Noi rimasti restammo un po' con le mani in mano, dicendo brevi frasi di circostanza, fino a quando John e i signori Di Luca si ritirarono per andare a prendere da bere. Louis e la moglie Ursula si unirono a loro. Corentin disse, con tono piuttosto stizzito, che aveva mal di testa e che la musica non era di suo gradimento (non disse "questa musica non mi piace", disse proprio "questa musica non è di mio gradimento"), perciò sarebbe tornato a casa.
«Mina? Tu non vieni con me?» chiese, cercando di posare una mano sul braccio della ragazza.
«No» rispose lei, scostandosi impercettibilmente. E lui se ne andò.
Così restammo in tre. Io, che mi stavo sinceramente divertendo, e Carlo, che sapevo fosse rimasto con l'unico scopo di fare in modo che io tenessi a freno la lingua e il sarcasmo.
«Tu non balli?» chiesi alla ragazza. Carlo mi pestò un piede. Io sorrisi.
«No» disse.
«E non torni nemmeno a casa?» chiesi.
«No» rispose.
Alzai le sopracciglia, divertito. Sarei volentieri restato ancora un po', giusto per vedere se la tizia conoscesse qualche altra sillaba. Ma Carlo mi implorò di andare a prendere da bere, e quindi ci congedammo. Mina ci fece giusto un mezzo sorriso a mo' di saluto.
«Ma che razza di problemi ha quella là?» chiesi, ridendo.
«Magari è timida» disse Carlo, ma accennò una risata anche lui.
«Nah. Secondo me pensa che siamo un branco di sfigati». Carlo annuì.
La festa continuò. Ed erano già le due di notte. Quasi la metà delle persone se ne erano già andate, e DJ Tony aveva avuto la cortezza di abbassare la musica. Aveva messo dei balli di gruppo molto vintage, e fui felice di constatare che Giovanni e Charlotte ballavano insieme, ridendo e divertendosi, da almeno un'ora e mezza.
«Sono carini insieme, però!» disse Carlo indicandoli, rubandomi la bottiglia di birra dalla mano per farne qualche sorso. Dissi che, effettivamente, era vero, ma che speravo per quella ragazza che non si stesse prendendo gioco di mio fratello. Carlo mi rispose che secondo lui non era quel tipo di persona. Ad un certo punto vedemmo Charlotte salutare Giovanni con una stretta di mano ed allontanarsi. Giovanni si guardò un po' intorno, ma alla fine individuò Cesare e Livio e si unì a loro e ad un altro gruppo di persone.
Io e Carlo eravamo seduti su una panchina di uno dei giardini rimasti aperti. Non eravamo troppo lontani dal gruppo di persone che continuavano instancabilmente a ballare – dovevamo pur sempre tenere d'occhio Giovanni e i gemelli – ma allo stesso tempo eravamo abbastanza in disparte per poter parlare senza dover perdere le corde vocali. Stavamo chiacchierando del più e del meno, prendendo in giro le persone ubriache e discutendo su chi fosse più inopportuno fra i suoi genitori e il Signor Bennet, quando sentimmo delle voci borbottare poco distante da noi. Carlo mi indicò con un cenno del mento Mina e Charlotte, appoggiate ad un albero che stava a qualche metro da noi. Non si erano accorte della nostra presenza, e noi non demmo loro modo di rimediare.
«Ma perché non balli anche tu? Mi sto divertendo un casino!» esclamò Charlotte, prendendo l'amica per un braccio e tentando invano di trascinarsela dietro.
«Non mi va, Charlie. Lo sai che non mi piacciono le feste. Ballerei solo se ci fossero unicamente persone che conosco bene» rispose Mina. Quindi sì, conosceva più di un monosillabo.
«Oh andiamo! Ti divertiresti! E poi ci sono così tanti ragazzi carini».
«Tu stai ballando con l'unico ragazzo decente qua in mezzo» sbottò Mina. Io e Carlo ci guardammo sollevando contemporaneamente le sopracciglia. Simpatica, la ragazza. Almeno aveva fatto un complimento a mio fratello.
«Ma non è vero!» si lamentò l'altra. «Suo fratello, Elio, giusto? Sembra divertente ed è anche molto attraente». Carlo mi sgomitò contro un braccio, trattenendo una risata.
«Elio? Quello di mezzo? Per favore... è appena passabile e in più non ha ballato con nessuno, quindi suppongo che o sia un pessimo ballerino oppure sia insopportabilmente antipatico. Torna dal tuo Giovanni, Charlie, con me stai perdendo tempo».
Decisi che, assolutamente e senza alcun rimedio, quella ragazza mi era decisamente ed insopportabilmente antipatica.