Work Text:
Caro Nicola, è stato davvero strano ritrovarti dopo così tanto tempo...
...sono stata incerta in questi giorni se dirtelo o no...
...il passato ci sta addosso...
...il giorno prima della tua partenza avevo scoperto di essere incinta...
Ogni frase, uno schiaffo.
Ogni parola, un colpo allo stomaco.
Ogni certezza sul suo essere rasa al suolo da lettere anonime nel loro essere meccaniche.
«È 'no scherzo» è tutto ciò che riesce a dire mentre fa avanti e indietro in quel salone che gli è ancora sconosciuto, le mani sui fianchi e gli occhi che saettano da una parte a un'altra senza vedere davvero nulla.
Ritorna seduto davanti allo schermo del computer di sua madre che gli schiaffa ancora beffardo la verità in faccia, una verità diversa da quella che si era costruito negli anni, che i silenzi di sua madre avevano contribuito a creare.
È feroce il movimento con il quale chiude il portatile ma ovattato il rumore che gli giunge alle orecchie, ché si è rialzato e i piedi lo stanno portando fuori da quella stanza che si è fatta campo di guerra. Nella foga di uscire sbatte anche la spalla contro lo stipite di una porta e impreca a voce alta per il dolore che comunque è sordo rispetto al boato che avverte dentro di sé.
Esce sul portico e nota Dante che è appena tornato, che già gli si avvicina per salutarlo.
«Che succede?» gli chiede vedendolo in quello stato, e Manuel sbotta come non aspettasse altro.
«Che succede? Succede che mia madre m'ha raccontato stronzate pe' diciott'anni!»
Il respiro è pesante, sembra abbia corso per quanto forte il cuore gli batte in petto ed è tra gli ansiti che sputa «Il padre di Viola è mio padre.»
«Eh... lo so.»
Alt.
Che cosa?
«Ah lo sa pure lei?» urla con voce tremante.
«Sì, me l'ha detto tua madre» continua tranquillo Dante, come se non stesse infliggendo continue coltellate alla schiena già tradita di Manuel.
«Quindi l'unico stronzo a non sape' de 'sta cosa ero io?» grida ancora, gesticola insensatamente, respira male.
«Io capisco che sei incazzato–»
«Non sono incazzato, sono incazzato nero! Vaffanculo!»
Non sente più cosa Dante prova a dirgli per calmarlo, non vuole capire perché due delle persone più importanti per lui gli abbiano celato una parte di sé, una parte che credeva di non avere e che invece ha scoperto non ha potuto avere, il perché nascosto nel cuore di quella madre che è stata tutto ma mai una delusione.
Mai, almeno fino a quel momento.
Si allontana in quel verde che circonda la villa senza curarsi dell'erba alta che gli graffia le caviglie o gli si attacca ai jeans, strappa feroce ciò che gli capita in mano e ben venga il bruciore ai palmi, sui polpastrelli, tanto lui non sente niente.
Non sente niente o forse sente troppo, lui che ha sempre incassato dietro una battuta il dolore che comunque gli si scorge negli occhi adesso non sa come sfogare quel panico che lo ha preso sotto la sua ala nera e non lo lascia respirare. Solo un'altra volta si era sentito così perso, e solo le mani di una persona lo avevano ancorato a sé stesso strattonandolo e riportandolo in piedi.
Ritorna sui suoi passi a passo svelto, rientra in casa lasciando la porta aperta, sale le scale a due a due ed entra nella stanza di Simone – nella loro stanza – chiudendosi l'anta dietro. Razionalmente sa che Simone non c'è eppure deve troncare la propria voce in gola già pronta a pronunciare il suo nome, emettendo così un lamento strozzato che si tramuta in un grugnito accompagnato dal pugno chiuso che sbatte contro il muro.
Respira, ancora affannato: se non può avere le mani di Simone a calmarlo si lascia avvolgere dal suo profumo che è impresso in ogni angolo di quella stanza, negli oggetti, sulle pareti, tra le lenzuola su cui lui stesso si addormenta ogni notte.
Cammina avanti e indietro, strizza gli occhi con due dita per non permettere al pianto di averla vinta, esce sul balconcino collegato alla camera e coglie la voce di sua madre che parla con Dante. Rientra dentro e chiude con forza le portefinestre come a tener fuori quella voce, ma pochi minuti dopo un bussare gli fa alzare lo sguardo verso la porta.
«Manuel sono io» pronuncia Anita disperata, la mano destra già sulla maniglia.
«Vattene» sbotta Manuel, ma resta inascoltato quando Anita apre la porta e fa il suo ingresso nella stanza. «Oh t'ho detto vai» ripete, spostandosi così da porre il letto fra sé e la donna.
«Tesoro, per favore» lo supplica.
Odia quello sguardo sul viso di sua madre, ma in quel momento pensa di odiare anche un po' lei. Eppure non può fare a meno di chiedere «Che cosa vuoi mamma?» con la voce che si spezza sull'ultima parola.
«Possiamo parlare?»
«Di che devi parla'? Non c'è niente da parla'» taglia corto, impulsivo, ma subito ci ripensa. «Dimme 'na cosa anzi: lui lo sapeva?»
Ti prego dimmi di no
«No! Io non avevo detto niente neanche a lui, l'ha saputo poco tempo fa–»
Alt.
Che cosa?
«L'ha saputo poco tempo fa e non s'è degnato manco de 'na chiamata, de dimme du' parole, complimenti bella coppia de stronzi che siete!»
In due falcate è già vicino alla porta, la apre. «Vattene» esige.
«Manuel...»
«Vai fuori!» urla, indicando il corridoio con la mano ed evitando lo sguardo della madre.
Anita non può fare altro che obbedire, gli occhi colmi di lacrime e il cuore in mille pezzi.
Manuel le chiude la porta alle spalle. Si sente sgonfiato e privo di forze, in lotta tra la parte di sé che avrebbe voluto abbracciare la madre che aveva promesso non avrebbe più fatto piangere, e un'altra parte tradita e delusa con la quale non sa che farsene.
Si siede sul letto poggiando i gomiti sulle ginocchia, si prende la testa tra le mani nel tentativo di fermare quell'agitazione che gli fa tremare tutto il corpo e non ci è ancora riuscito quando Simone fa il suo ingresso nella stanza.
È in quella posizione che lo trova e ciò lo fa bloccare sull'uscio. «Ehi, tutto bene?» chiede mentre abbandona lo zaino vicino alla scrivania. Tuttavia non riceve alcuna risposta, né un accenno di movimento dall'altro ragazzo. Perciò «Manuel?» ci riprova, avvicinandosi un po'.
Manuel lascia cadere le braccia penzoloni nello spazio libero tra le sue gambe prima di alzare lo sguardo spento e annacquato sul viso di Simone. «Il padre di Viola è mio padre» ripete quella frase che gli rimbomba in testa da quando ha letto quella dannata email.
Ha quasi perso di significato per quante volte l'ha ripetuta mentalmente, le parole solo un'accozzaglia di lettere che gli sono piovute addosso proprio quando lui era senza ombrello, senza un riparo. Una lacrima rischia di rigargli una guancia ed è con voce spezzata che «Dimmi che almeno tu non lo sapevi» supplica.
Torna a prendersi la testa con le mani e a stringere i capelli in due pugni, ché non riesce a guardare il viso di Simone per paura di scorgere nei suoi occhi la stessa consapevolezza pietosa che aveva visto in quelli del professore.
Non potrebbe sopportare che anche Simone gli abbia tenuto nascosta una cosa tanto enorme, spazzerebbe via come vento le sue certezze già ridotte in macerie.
Con lo sguardo ancora rivolto al pavimento percepisce soltanto i movimenti dell'altro, che intanto si è avvicinato ancora e si è piegato sulle ginocchia per essere al suo stesso livello. Poi avverte una pressione calda su entrambe le ginocchia e Simone che «Manuel...» lo richiama.
Strizza gli occhi perché non riesce a capire cosa si nasconde dietro al tono di voce di Simone; pensava di essere esausto dopo le urla contro Dante, contro sua madre, dopo aver scalciato e grugnito contro qualsiasi cosa si ritrovasse davanti prima di rintanarsi in quella camera che gli era sembrata l'unico posto che potesse offrirgli un rifugio, ma si scopre ancora irrequieto e spaventato perché va bene tutto, va bene tutti, ma non Simone, lui me l'avrebbe detto, lui–
«Manu mi guardi, per favore?»
È di nuovo la voce di Simone a riportarlo al presente e a fargli aprire gli occhi, sono le mani di Simone sulle proprie ginocchia ad ancorarlo nel qui e ora e a fargli allentare la presa sui capelli. Alza gli occhi lentamente e guarda quelli di Simone, che sembrano ancora più grandi da così vicino; pensa che gli basterebbe spostare di poco una mano per andare a distendere col pollice quella ruga tra le sopracciglia che pare essere perenne sul volto dell'altro.
«Ti giuro che non ne sapevo niente» gli dice, chiaro, la voce ferma per assicurare Manuel che no, non lo sapevo, te lo avrei detto. «Te lo avrei detto, lo sai» continua infatti, e Manuel lo sa per davvero, in fondo, ma averne la conferma gli calma un po' il cuore.
Annuisce tirando su col naso mentre lascia ricadere le braccia sulle proprie gambe, confortato dal tocco gentile di Simone che gli accarezza le ginocchia con i pollici; si concentra su quei movimenti e prova a regolarizzare il respiro a tempo con essi, il petto che pian piano si abitua al nuovo ritmo.
Simone abbassa un po' il capo cercando gli occhi di Manuel con i propri, lo guarda tra le ciglia mentre gli domanda «Mi credi?»
Manuel annuisce di nuovo: è vero, gli crede, ché se c'è una cosa di cui è sicuro in quel momento è che nel tempo che ha trascorso assieme a Simone ha imparato almeno un po' a capirlo anche senza parlare, a scovare dietro le sue espressioni i pensieri che gli affollano quella mente che corre sempre a mille, e glielo legge negli occhi che è sincero e forse un po' preoccupato e sta già pensando a una soluzione per un problema che forse non c'è ma che sicuramente non sarebbe suo.
(Anche se, quando si tratta di Manuel, tutti i problemi diventano anche suoi.)
Simone si sistema meglio sul pavimento, si siede a gambe incrociate senza interrompere il contatto con Manuel facendo scivolare le mani ai lati dei polpacci dell'altro; compie dei movimenti leggeri dal basso verso l'alto per fargli sapere che c'è, che se vuole quella cosa l'affrontano insieme, come hanno sempre fatto. Lascia a lui la scelta se raccontargli come l'ha scoperto, se dirgli cosa pensa, mentre si limita a comunicargli il suo sostegno standogli vicino.
Manuel fa un respiro profondo e si poggia al materasso con le mani ai lati dei fianchi. Stringe un po' la presa, come se dovesse prepararsi a ciò che sta per dire.
«Mia madre è 'na stronza» dice, piatto. «E pure tu' padre».
Simone sbuffa dal naso. «E qual è la novità.»
«Sapeva tutto e non m'ha detto niente» continua Manuel, «non se sa tene' 'n cecio 'n bocca e invece 'sta volta improvvisamente santo. L'ho dovuto scopri' da 'n'email de mi' madre.»
La stretta sul materasso si fa più forte rendendogli le nocche bianche. Gli ritorna in mente ogni parola, ché nonostante le abbia lette solo una volta esse sono state capaci di marchiarsi a fuoco nel cervello e non vogliono andarsene. «Ma sai qual è la cosa più assurda, Simò?» gli chiede guardandolo.
Simone scuote la testa.
«Pe' diciott'anni» scandisce Manuel, «ho pensato che mi' padre non mi volesse. Che c'avesse abbandonati perché era 'na merda, perché non se sapeva prende' 'e responsabilità sue» alza il tono della voce, ma il groppo in gola è ritornato e lo obbliga a mormorare le ultime parole: «E invece manco sapeva che esistessi.»
Scorge negli occhi dell'altro comprensione e vicinanza, e stanco di mostrarsi sempre grande ma forte dell'ascolto che sempre gli concede Simone, si lascia andare alla parte più vulnerabile di sé stesso.
«E io ora non so che farmene de 'st'odio che me so' portato dietro pe' tutti 'sti anni, Simò. Non so che farmene de 'n padre, de 'na sorella...»
Quella realizzazione lo colpisce allo stomaco solo in quel momento.
«Simo, c'ho 'na sorella» sussurra.
Una lacrima si lascia dietro una scia calda mentre si fa largo sulla guancia di Manuel, andandosi ad infrangere sulla barba rada. Sta ancora guardando Simone ma non lo vede davvero, ché la mente è corsa a universi in cui un Manuel bambino e una Viola bambina si rincorrono ridendo, in cui un Manuel appena adolescente prende bonariamente in giro la sorella ma è pronto a fare a botte con chiunque la faccia piangere, in cui lui non abbandona neanche per un attimo il fianco di Viola dopo l'incidente che l'ha costretta su una sedia a rotelle.
La sua mente vortica tra quelle e altre mille possibilità che gli sono state sottratte e gli sembra di essersi staccato dal proprio corpo e di stare ad osservare sé stesso dall'esterno e si vede con i capelli sparati in tutte le direzioni gli occhi che guardano ovunque senza trovare un punto fisso le mani che si torturano tra di loro il corpo che trema e poi Simone–
Simone.
Il suo punto fermo, Simone.
Simone che riconosce l'inizio di un probabile attacco di panico e si porta una mano di Manuel sul petto tenendola lì con la propria, Simone che gli afferra la nuca con l'altra mano per fermare il moto convulso della testa di Manuel e far sì che lo guardi negli occhi, Simone che con voce calma gli dice «Manuel, ascolta.»
Manuel prova a sentire qualcosa ma non sa cosa, le orecchie hanno ricominciato a fischiargli e sfuggono al suo controllo ma Simone preme più forte la sua mano su quella di Manuel poggiata sul proprio petto.
«Ascolta qui.»
Manuel sente il cuore di Simone così chiaro che sembra battergli direttamente sul palmo, un tu-tum lineare che prova a fare sua guida mentre comanda al petto di seguire quello dell'altro. Ci riesce, lentamente, accompagnato dai sussurri di Simone che gli dicono piano, così e bravissimo finché non sono tornati sulla stessa strada, uno al fianco dell'altro.
Si prende qualche altro momento per fare dei respiri profondi, allenta la presa sulla maglia dell'altro che non si era nemmeno accorto di star stringendo e annuisce piano allo sguardo di Simone, Meglio? la domanda muta negli occhi.
Simone si rimette in piedi, afferra dallo zaino il tabacco e glielo mostra. «Vieni con me?»
È una serata abbastanza mite per essere ottobre e Manuel e Simone siedono con le gambe penzoloni sul bordo della piscina vuota, una posizione ormai abituale per i due ragazzi dopo che hanno fatto di quel piccolo angolo il loro posto sotto le stelle.
Fumano una sigaretta in silenzio; o meglio, Simone la sta fumando, Manuel ha dato solo un paio di tiri nei dieci minuti circa che sono trascorsi. È lui a introdursi nella quiete con voce appena mormorata.
«Tu ci pensi mai agli universi paralleli?»
Simone prende un tiro dalla sigaretta. «Tipo il multiverso di Spider-Man?»
«Eh, tipo.»
Simone piega il capo a destra e a sinistra. «A volte. Mi piace pensare che magari in un altro universo sono completamente diverso: mi tingo i capelli di biondo, o li porto più lunghi e canto in un gruppo o... boh, magari abito in un'altra città e scrivo racconti» fa spallucce. «Magari in un altro universo Jacopo è ancora vivo» mormora; guarda Manuel con la coda dell'occhio, poi di nuovo davanti a sé.
Magari in un altro universo io ti amo, e tu ami me.
Prende un altro tiro, sbuffa fuori il fumo e chiede «Te? Ci pensi?»
Manuel annuisce. «Ogni tanto penso a come sarebbe la mia vita là. Magari ce sta uno, uguale a me, co' 'n padre, 'na sorella... però ricco sfonnato» dice guardando lontano. «Non c'ha le pezze ar culo come me.»
Si sente avvolgere dal braccio di Simone che gli si poggia sulle spalle e lo spinge verso il suo corpo. Di norma si allontanerebbe da quel contatto che non ha iniziato lui eppure in quel momento sente che è l'unica cosa di cui ha bisogno; quindi abbandona leggermente la testa all'indietro, la nuca a contatto con il braccio di Simone.
L'altro non si muove, ché conosce Manuel e si aspetta che lo stacchi via scherzosamente pur di mantenere la facciata da duro a cui i sentimenti fanno venire l'orticaria; per questo si sorprende quando invece sente la sua fronte poggiarsi contro il proprio collo, le ciglia che lo solleticano al chiudersi delle palpebre.
Manuel si rifugia proprio lì dove il profumo di Simone è più forte e non diluito dagli odori di casa, scuola o altro, lo stesso profumo che in camera gli aveva quietato il cuore, lo stesso profumo che adesso quel cuore lo abbraccia e tiene al sicuro.
Magari in un altro universo io riesco a dirti che ti amo, e tu lo dici a me.
E allora Simone se lo stringe un po' più addosso, poggia una guancia tra i suoi ricci e osa premere lì le labbra in un bacio prolungato. Non sa per quanto tempo rimangono stretti l'uno all'altro ma entrambi ne sfruttano ogni attimo, consapevoli solitari del bisogno che ne covavano senza però confessarselo a vicenda.
«Grazie.»
È un sussurro quello di Manuel, Simone lo percepisce solo perché gli è tanto vicino. Un angolo della bocca gli si solleva, poi si sbilancia all'indietro per stendersi sull'erba portandosi dietro Manuel che finisce per metà sul suo petto.
Guardano il cielo scuro puntellato di stelle cercando tra di esse squarci di quegli universi paralleli che a volte visitano nei sogni, in cui le loro vite magari sono diverse ma non loro, che in ogni realtà, tempo e spazio sono sempre Manuel e Simone.
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Vedere suo padre cadere a peso morto davanti ai suoi occhi è un'immagine che Simone non dimenticherà mai.
Il fatto che sia successo proprio mentre stava tenendo una delle sue lezioni per annunciare alla classe che avesse deciso di operarsi aggiunge solo la beffa al danno.
È una molla che scatta non appena vede il corpo di Dante accasciarsi al suolo, uno scatto e gli è immediatamente vicino che prova a chiamarlo e fargli aprire gli occhi. I suoi compagni gli sono accanto subito dopo e anche loro chiamano il professore, qualcuno urla a degli infermieri di avvicinarsi.
Due uomini si fanno largo tra i ragazzi e chiedono un po' di spazio per poter controllare Dante, uno di loro gli alza le gambe nella speranza che riprenda i sensi ma quando è chiaro che si tratta di qualcosa di più serio di un semplice svenimento, fa cenno al collega di correre a prendere una barella.
Le palpebre del professore non accennano ad alzarsi nella processione lungo il corridoio avvilente dell'ospedale di medici e studenti che si affannano per stargli dietro, Simone in prima fila accanto al padre a tenergli una mano inerme. Il dottore che li ha raggiunti appena hanno varcato le porte del pronto soccorso gli chiede informazioni circa lo stato di salute di Dante e Simone cerca di rispondere nel modo più chiaro e accurato possibile nonostante la mente in subbuglio.
«Sono il figlio» dice all'infermiera che prova a fermarlo all'ingresso del reparto, riesce a superarla ma solo per venire bloccato un secondo dopo dal medico che gli dice che non può andare oltre: in un attimo Dante viene spinto velocemente verso la sala TAC mentre lui rimane in quel purgatorio tra suo padre e i suoi compagni, rimasti in sala d'attesa.
Si volta verso le porte alle sue spalle e da due finestrelle quadrate può scorgere Laura che parla animatamente con Matteo e gli altri, e Manuel, lo sguardo preoccupato rivolto a lui, le sopracciglia aggrottate. Gli fa un cenno con la testa come a chiedere Notizie?, ma Simone può solo scuotere il capo in diniego.
Realizza che dovrebbe chiamare sua madre, quindi si tasta le tasche dei jeans che indossa e recupera il cellulare con la mano destra che gli trema leggermente; deve pure spostarsi un po' per cercare una ricezione migliore, ché non ha mai capito perché negli ospedali i cellulari smettano improvvisamente di funzionare, come se si entrasse in un'altra dimensione che ti estranea dal resto del mondo. Floriana risponde quasi subito e un po' il peso che avverte sullo stomaco si allenta non appena la donna gli dice che lo raggiungerà al più presto.
Non potendo raggiungere suo padre decide di spostarsi in sala d'attesa per aspettare l'arrivo della madre, ma non appena preme sul maniglione antipanico viene invaso dalle domande degli altri ragazzi che preoccupati chiedono di sapere qualcosa; Simone però non sa come rispondere, e a dire il vero sente la testa girargli. Manuel se ne accorge e «Ah rega', fatemelo respira' 'n po'» dice, allargando le braccia come a creare per Simone una via di fuga.
Glien'è grato e lo guarda riconoscente mentre ne approfitta per allontanarsi: si sente un po' in colpa, ché sa che i suoi compagni tengono a Dante e sono preoccupati, ma al momento desidera solo mettere a posto i battiti del suo cuore che non smettono di scuotergli il petto come una grancassa.
Trova un corridoio semideserto con delle finestre che danno sul giardino esterno e lì davanti si dirige, valutando se aprirne una per permettere all'aria fredda di ridargli respiro. Non lo fa, non ne trova le forze, riesce solo a poggiarsi con una spalla al muro, lo sguardo fisso oltre il vetro un po' sporco e le braccia strette al petto come a tenersi insieme e non crollare.
Prima di quegli ultimi giorni, prima di quel momento, non aveva voluto soffermarsi sullo scenario peggiore: gli sembrava già impossibile che suo padre, che a cinquant'anni suonati andava ancora in moto e si comportava per la maggior parte del tempo come un adolescente pieno di vita, potesse essere malato; dopo aver parlato con lui ed essersi addirittura calato nel ruolo di professore per usare contro di lui la sua stessa moneta, aveva tirato un sospiro di sollievo quando finalmente si era convinto a farsi operare, e sperava – aveva voluto sperare, così tanto – che sarebbe andato tutto bene.
Eppure la vita a volte è bastarda, e non solo ti porta via troppo presto un pezzo della tua anima condannandoti a un'eterna vita a metà, ma qualche anno dopo ti mette davanti la possibilità di perderne un altro, uno che solo di recente hai reimparato ad avere accanto. E Simone non vuole prendere in considerazione tale possibilità, davvero non vuole, ché per quanto Dante sia pieno di difetti è il suo papà, e non può abbandonarlo.
Né io lui, né lui me.
Minuti interi trascorrono mentre guarda al di là dei vetri in attesa di non sa bene cosa, quando sente dei passi alle sue spalle e poi la voce di Manuel che lo riporta al presente.
«Oh, stai qua» dice avvicinandosi lentamente.
Simone gli lancia uno sguardo e annuisce. Non parlano per qualche secondo, il silenzio pesante fra di loro.
«Hai visto che brutti scherzi che tira il destino?» mormora in seguito Simone guardando ancora all'esterno.
Manuel annuisce mesto. «Ho visto.»
Quando Simone si volta poggiandosi con le spalle al muro dietro di sé, Manuel può vedere le lacrime che riempiono gli occhi grandi dell'amico e il viso completamente devastato di chi ancora troppo giovane ha già dovuto subire troppe volte i disordini del mondo. Lo osserva torturarsi le pellicine delle dita con sguardo basso prima di avvertire uno sbuffo dal naso, amaro come le parole che seguono.
«Tu che trovi tuo padre, io che rischio di perdere il mio...» pronuncia l'ultimo verbo con un nodo al cuore che gli toglie il fiato; una sola lacrima calda gli scivola sulla guancia come carezza.
Non lo vede avvicinarsi, piuttosto sente le braccia di Manuel che lo attirano a sé avvolgendogli uno le spalle e l'altro il busto, mentre Simone si ritrova a rispondere naturalmente a quell'abbraccio incastrando il volto là dove può ascoltare sulla pelle il cuore dell'altro.
«Non lo di' manco pe' scherzo Simò» gli sussurra con le labbra vicino all'orecchio, «non lo di'.»
Lo stringe più forte fino a perdere la percezione di dove inizi uno e finisca l'altro mentre il pianto di Simone gli bagna la felpa grigia sul collo.
«Sembra un brutto sogno» sussurra di rimando quest'ultimo tirando su col naso.
Manuel gli sposta la mano sulla nuca carezzandolo leggero con le dita, poi si allontana giusto il necessario per guardarlo negli occhi ora rossi e gonfi. Simone può vedergli sul viso la lotta in corso contro sé stesso per fargli quella domanda che sapeva prima o poi sarebbe arrivata.
Infatti l'amico corruga le sopracciglia prima di chiedergli «Perché non m'hai detto niente?» con tono abbattuto.
Simone sospira prima di poggiarsi di nuovo alla parete. «Ci ho provato.»
La confusione in Manuel è palese, tuttavia non dura molto in quanto è piuttosto immediato per il ragazzo mettere insieme i pezzi. «Quel giorno che sei venuto sotto casa di Nina» mormora, le sopracciglia che scattano verso l'alto.
«Mio padre me l'aveva appena detto, ti ho cercato subito dopo...»
«Dio, Simò, avevi detto che non era importante come cazzo facevo a sape'–»
«Avevi altro per la testa» lo interrompe Simone mentre torna a stringersi con le braccia.
Dopo aver seguito il padre in ospedale e aver discusso con lui aveva mandato un audio a Manuel di puro istinto, con la paura della notizia appena appresa che gli contorceva lo stomaco; la naturalezza con la quale aveva cercato proprio lui per primo la coglie forse solo il quel momento ma non trova in sé stesso nemmeno un briciolo di sbalordimento, né stupore.
Tuttavia si era ritrovato spiazzato di fronte alla novità dell'imminente partenza dell'altro, ché sì che aveva capito tenesse a Nina ma non pensava tanto da lasciare Anita, lasciare Roma – lasciare lui – senza guardarsi indietro. Gliel'aveva anche detto, Mi lasci qui da solo come al solito, con un impeto che nemmeno lui ha ben capito da dove venisse eppure giusto nel suo essere spontaneo.
Quindi aveva fatto un passo indietro, ché non gli sembrava giusto caricare sulle spalle di Manuel anche il peso della malattia del padre quando il ragazzo aveva già altri piani per la sua vita, nonostante il bisogno che avvertisse di urlargli contro ti prego, resta, non lasciarmi anche tu.
Una propensione quasi patologica nel compiacere tutti, quella di Simone, anche a costo di rimetterci sé stesso.
«Ma non me ne frega un cazzo Simò!» Manuel lo sorprende sbottando. «Bastava 'na parola–»
«Bastava 'na parola e cosa? Lasciavi Nina e venivi con me?»
«Sì! Lasciavo Nina e venivo co' te! 'N avrei mai lasciato da solo te!»
Simone lo guarda mentre Manuel ha un braccio allungato verso di lui, la mano aperta a indicarlo, e l'altra sul proprio fianco; vede anche gli occhi leggermente allargati e quasi sorpresi dal solo pensare che Simone possa credere una cosa del genere senza nemmeno concedergli il beneficio del dubbio.
Poi sembra ripensarci, ché ultimamente c'è quella distanza tra loro che entrambi hanno lasciato crescere come una chiazza nera su una tela intonsa e forse devono ricordarsi a vicenda che possono sempre contare l'uno sull'altro.
Perciò sospira e si avvicina nuovamente a Simone. «Sei 'n cazzo de testone, lo vuoi capi' che se c'hai bisogno io mollo tutto e tutti e corro da te, o no?»
Si guardano per un tempo che si dilata adattando i propri contorni alle loro figure una di fronte all'altra, si guardano come si sono guardati altre centinaia di volte dicendosi ciò che non sono ancora in grado di confidare a parole.
È Simone che dopo qualche minuto chiede «Andrà tutto bene, vero?», come un bambino che cerca rassicurazioni dopo una notte di incubi.
Manuel scuote la testa stringendosi nelle spalle. «Simò io questo non te lo posso di'» ammette sincero, ché odierebbe farsi carico di una promessa che impotente non potrebbe far nulla per mantenere. «Però te posso di' che non stai da solo. Ce sto io co' te.»
Una sua mano va a poggiarsi su quella di Simone ancora stretta al proprio braccio e lui l'accoglie come appiglio nella tempesta di quei giorni disordinati, il peso sulle spalle meno grave adesso che Manuel se ne è fatto un po' carico.
Che in ogni realtà, tempo e spazio Manuel si fida solo di Simone, e Simone solo di Manuel.