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Language:
Italiano
Series:
Part 1 of Looking too closely
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Published:
2023-04-20
Completed:
2024-08-23
Words:
983,746
Chapters:
80/80
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Looking too closely [Libro I - The Lovers]

Chapter 80: CAPITOLO 79 - Estate (Dorcas Meadowes & Evan Rosier)

Chapter Text

 

26 marzo 1978

Evan

Era cominciato tutto durante le vacanze di Pasqua. Non avrebbe dovuto avere un inizio, in realtà; non ci sarebbe dovuto essere nessun coinvolgimento, niente che lasciasse intendere il nascere di una complicità. A volte, però, scegliere non era un’opzione, ma il frutto di azioni prive di discernimento.

 

Lasciava spesso la residenza dei Rosier per levarsi di dosso il profumo insistente dei gelsomini piantati da sua madre. Sbocciavano in ogni angolo della tenuta, si arrampicavano sui cancelli, imprigionavano le siepi, creavano fitti muri sul retro del maniero. Bastava aprire le imposte per vederli e riempire le stanze della loro delicata fragranza. E capitava ben più di frequente di quanto gradisse, sia per errori propri – la ricerca di un cambio d’aria nei pomeriggi in cui detestava sentire l’odore dell’alcol impregnargli i vestiti e le lenzuola – sia per lo zelo che sua madre metteva nell’ordinare al loro giovane elfo domestico di arieggiare le camere al mattino.

I gelsomini erano parte della sua infanzia. Erano testimoni di scene dolci e scandalose. Proprio tra i cespugli infestati del giardino, tra boccioli bianchi e foglie ruvide, in una sera d’estate sul finire del quarto anno aveva fatto l’amore con Ophelia per la prima volta.

«Io ti consiglierei di darci un taglio, ragazzo» brontolò il proprietario della Testa di Porco, levandogli da sotto al naso il boccale vuoto e interrompendo il suo fantasticare.

Evan esalò una bestemmia, sollevò la testa e allargò le braccia che fino a quel momento aveva tenute incrociate davanti a sé. «Andiamo, vecchio, non puoi negarmi da bere, sono un cliente fisso!»

«Strano a dirsi, ma potrebbe essermi rimasta della coscienza» replicò Aberforth, infastidito. Puntò la porta del locale con una mano tozza e rugosa. «Ora vattene a casa. Sempre che tu ci riesca, certo: sei più ubriaco della mia capra.»

«La tua capra è ubriaca?» chiese un altro avventore, che occupava un posto al bancone a due sgabelli di distanza da Evan. Aveva l’aspetto di un barbone. E forse lo era davvero. «Com’è possibile che sia ubriaca, Aber?»

Aberforth grugnì e posò un braccio sullo straccio che aveva buttato davanti a sé per pulire. «Le è venuta la passione da quella volta che una delle mie botti ha avuto una perdita, Morty. Si è scolata l’equivalente di dieci boccali di birra!»

«Cazzo» farfugliò Evan, scendendo dal proprio sgabello con la sensazione che il pavimento fosse un po’ più vicino del dovuto e la mente occupata a processare il fatto che la capra di Aberforth fosse un’alcolizzata. Non può essere più cotta di me in questo momento, però.

Di solito beveva tanto, ma non così tanto. Aveva esagerato e non sarebbe riuscito a tornare a casa. Non poteva prendere la Metropolvere senza correre il rischio di incrociare sua madre in salotto e Materializzarsi lo avrebbe sicuramente portato a Spaccarsi, procurandogli un viaggetto non programmato al San Mungo che avrebbe chiuso in bellezza il giorno di Pasqua.

Lasciò il pub barcollando e osservò la via buia che conduceva al centro del villaggio di Hogsmeade, illuminata da vecchie lampade a olio appese a sostegni di ottone piazzati agli angoli delle strade. Nell’aria c’era un tenue profumo di castagne e il cielo scuro restituiva l’immagine di una luna nel suo pieno regredire, tipico delle fasi successive al plenilunio.

Evan prese una profonda boccata d’aria – faceva un po’ freddo, malgrado indossasse un mantello di cotone pesante – e meditò a lungo sul da farsi. Gli girava la testa, il fianco destro gli doleva e lo stomaco bruciava; aveva bevuto a stomaco vuoto conscio delle conseguenze. Si ritrovò suo malgrado a risentirsi di se stesso.

Prese quindi a camminare per ritrovare la lucidità perduta, gli occhi che andavano alle imposte sigillate delle case abitate, ai caminetti accesi e da cui uscivano sottili fili di fumo che si distinguevano nella notte con le tonalità sporche del grigio. Ebbe a pensare che quei maghi e quelle streghe che abitavano lì si sentissero in tanti modi fuorché al sicuro.

Giunto a un incrocio, Evan strizzò gli occhi e intravide poco lontano le figure rigide di due Auror, che se ne stavano in all’erta con i loro distintivi e i mantelli spessi, le facce rigide e le mani pronte a cingere le bacchette.

A nessuno interessa attaccare Hogsmeade, per il momento, pensò Evan con un ghigno neutro. Dovreste preoccuparvi dei Babbani. Loro sì che rischiano. Devono rischiare. Se lo meritano.

Lo pensava spesso, dalla morte di Ophelia; e altrettanto spesso se ne convinceva, o quantomeno tentava di convincersene, ma era frequente il sospetto che l’alcol giocasse un ruolo cruciale nella somma dei suoi livori.

Riprese ad avanzare ignorando gli Auror e i propri pensieri cattivi e cambiò direzione, immettendosi in una stradina che sapeva lo avrebbe portato ai Tre Manici di Scopa. Non avrebbe bevuto di nuovo, ma desiderava un posto confortevole in cui smaltire parte della sbornia.

Svoltato l’angolo, vide due figure che conosceva bene, ma che non avrebbe creduto di rivedere vicine dopo così tanto tempo. Pertanto fece un paio di passi indietro, rischiando di barcollare – non era una manovra consigliata per una persona brilla – e tornò dietro al muro per spiarli ed evitare di essere visto.

«… è assurdo che ora tu mi costringa a vederti qui, quando saresti potuto benissimo passare da casa mia, come hai sempre fatto.»

«Ho degli affari urgenti in zona, quindi non ho altra scelta.»

Dorcas indurì lo sguardo in risposta, ma Rodolphus parve non badarle. Le spinse tra le mani un minuscolo pacchetto – quadrato e non più grande di un Boccino d’Oro – e aggiunse gelido: «Credimi, preferirei vederti altrove, ma le circostanze non me lo permettono.»

«Immagino di che genere di circostanze si tratti» mormorò Dorcas, afferrando controvoglia il pacchetto. Lo portò al petto scuotendo il capo, e i suoi capelli scuri le coprirono parte del volto; non li aveva lisci, ma al naturale, ricci e gonfi, e le arrivavano appena sotto al mento. Li aveva tagliati durante le vacanze di Natale, diceva che erano più comodi da portare.

A Evan di solito non piacevano così corti, ma riusciva a vederne il bello in quelle persone capaci di coinvolgerlo almeno un po’. Era il suo modo strambo di dimostrare affetto, o così gli aveva detto Ophelia – sempre avvertendolo, naturalmente, che toccare i capelli altrui poteva essere visto nella maggioranza dei casi come molesto. Come se lui non lo sapesse, quanto sgradevole rischiasse di risultare. Non a caso sceglieva a chi rivolgere tali attenzioni, conscio di ottenere il consenso delle persone prescelte. E allo stato attuale erano due soltanto. E una era proprio Dorcas Meadowes.

«Proverò sollievo il giorno in cui questa faccenda giungerà al termine» affermò Dorcas di punto in bianco, mentre Rodolphus faceva per andarsene. Questi si bloccò, com’era ovvio dopo una frase del genere, e lei aggiunse: «Quando scopriremo della fine di questo accordo?»

«Quando i segni scompariranno dalle nostre braccia» rispose Rodolphus con indolenza. «Quel giorno non è troppo lontano. Il debito contratto da mio padre verrà estinto quando l’oro che vi spetta verrà ritrovato. E non manca molto. Abbiamo contato i pezzi.»

«Quanti…?»

«Una ventina.»

Dorcas lo scrutò con espressione diffidente, ma dovette finire col credergli, poiché annuì con un lieve cenno del capo. Soddisfatto, Rodolphus la salutò e si Smaterializzò.

Poi Dorcas fece una cosa strana. Ripose il pacchetto all’interno del cappotto che indossava, guardò a destra e a sinistra, e cominciò a camminare proprio dove si era posizionato Evan.

A quel punto gli sarebbe convenuto muoversi per non farsi vedere da lei, ma il suo cervello doveva essersi accomodato sugli allori, poiché non ordinò alle sue gambe di muoversi. Anzi, sembrò dire loro che stavano bene dov’erano. E lì difatti rimasero, finché Dorcas non svoltò l’angolo.

Al vederla fermarglisi di fronte con l’aria di chi la sapeva lunga, Evan capì che non si era recata lì per caso. «Ciao» borbottò allora, tanto per non sembrare un idiota.

«Voglio solo dirti che ti ho visto e che probabilmente anche Rodolphus ti ha scorto» affermò Dorcas senza salutarlo. Non era arrabbiata, o fredda com’era stata col cugino, ma quieta in modo insospettabile, come se avesse già fatto i conti coi possibili fastidi che le aveva creato spiandola. «Sei di nuovo ubriaco» constatò poi, mostrando invece un velo di preoccupazione.

«È così importante?» Evan si poggiò al muro, lo sentì ghiacciargli il mantello, e chiuse gli occhi. La testa cominciava a pulsare e non per l’alcol, o non solo per quello, ma per le domande che quella conversazione origliata avevano causato. «Anche l’anno scorso ti ha dato un pacchetto. Rabastan, però, non Rodolphus» mormorò, sollevando le palpebre.

«Scoprirai che i Lestrange hanno i loro segreti» rispose Dorcas, paziente. Allungò un braccio e lo infilò sotto al suo mantello: trovò il suo gomito e lo afferrò. «Vieni. Ti porto al negozio. Sospetto che fino a poco fa stessi girando a vuoto perché non vuoi tornare a casa.»

«Mi conosci bene» rispose Evan, provando indifferenza per quell’informazione. O no, non era proprio indifferente. Più che altro, voleva dormire. Non vomitare. E dormire. E stare al caldo. Dorcas era calda, percepiva il suo tepore attraversare il tessuto del maglione che indossava, anche se gli sfuggì per un breve attimo al venir tirato via dalla Materializzazione Congiunta, ma tale sensazione si ripristinò subito.

E durò un solo altro attimo, poiché quel viaggio lo indusse a staccarsi da lei, chinarsi alla propria sinistra e vomitare sul marciapiede. Tutto ciò che aveva bevuto si estese in una pozza ambrata ai suoi piedi.

«Oh, Merlino» mormorò Dorcas, sconsolata. «Davvero, Evan, quand’è stata l’ultima volta che ci siamo visti? Durante le tue vacanze di Natale? Perché è la seconda volta che rimetti a due centimetri dalla porta del mio negozio durante le festività.»

Evan questo non lo ricordava, ma era probabile fosse successo davvero. Oh, chi se ne frega, pensò ripulendosi la bocca col dorso di una mano. Si tirò su, riprese a fissare Dorcas e la vide aprire la porta del negozio con la magia; una volta dischiusa, tornò a prenderlo, fece svanire il suo vomito e lo portò dentro.

Le lampade a olio presero vita e illuminarono il locale. Al chiudersi, la porta proiettò un’ombra che viaggiò rapida su muri e pavimenti e che Evan si ritrovò a seguire con la testa martoriata da fitte sgradevoli.

Un leggero fastidio alla gola – un mix di secchezza e bruciore – lo costrinse a deglutire più volte. «Credo di… ho bisogno di bere dell’acqua» ammise infine, mentre Dorcas sigillava l’ingresso. «Mi basta un contenitore e…»

«Vieni di sopra. Ho dell’acqua fresca» replicò Dorcas, avviandosi verso la porta che dava all’appartamento sopra il negozio. Evan si limitò a seguirla, inquieto, senza badare allo spegnersi delle luci che seguì l’abbandono del locale.

Era la prima volta che Dorcas lo invitava a salire. Di solito lo teneva alla larga. Entrambi sapevano il perché – erano infinite le allusioni che si era prodigato a esternare l’estate passata – e quindi Evan trovò quantomeno sospetto che ora lo stesse portando con sé.

Salite le scale e aperta un’altra porta, si ritrovarono in un grazioso salotto arredato col mimino indispensabile – un divano, un tappeto, un tavolino basso su cui svettava un vaso di fiori e bianche tende alle finestre – e che esponeva l’ingresso della cucina e la porta per quella che doveva essere la camera da letto. Evan avrebbe scommesso che il bagno fosse accessibile dalla sola camera.

«Siediti, ti porto dell’acqua e anche una pozione per farti passare la sbornia» disse Dorcas, levandosi il cappotto per appenderlo a un alto appendiabiti di legno collocato proprio accanto all’ingresso dell’appartamento.

Evan la imitò e andò a sedersi. Si rese conto, accomodandosi contro lo schienale del divano, che la vista gli si era in qualche modo appannata. Pensò al Firewhisky bevuto, ai rimproveri di Aberforth e al viso disperato di sua madre, che lo pregava di non uscire e ubriacarsi.

Se i suoi genitori avessero davvero voluto fermarlo, avrebbero usato la magia. La realtà era una soltanto: avevano in odio l’idea di fargli del male, poiché era il loro unico figlio e erede. Non erano dei bastardi sadici come William Avery, che torturava Robert per puro capriccio. No, lo amavano troppo per toccarlo; e, anche se mai lo avrebbero detto ad alta voce, serbavano con estrema chiarezza il ricordo del corpo devastato di Ophelia.

Avevano visto l’amata nipote spirare tra le braccia della madre. Erano stati testimoni di un dolore che mai avrebbero voluto provare.

Evan tirò indietro il capo, guardò il soffitto verniciato di bianco e fece scendere gli occhi sulle pareti del salotto, che invece presentavano una carta da parati a tinta unita di colore blu.

«Pensavo avresti ficcanasato, ma a quanto pare sei davvero cotto» constatò Dorcas tornando con una tazza in una mano e un bicchiere d’acqua nell’altra. Gli sedette accanto e Evan percepì i cuscini abbassarsi sotto al suo peso. «Prima l’acqua, poi la pozione.»

Non aveva bisogno di annusare la seconda per sapere che era il solito intruglio schifoso che Rabastan e Robert gli avevano rifilato per mesi. Prese quindi il bicchiere e mormorò: «Anche se ti ho tallonata, non significa che mi interessi tutto di te.» Non seppe perché lo disse, ma non si sentì in colpa. Si scolò l’acqua senza staccare gli occhi da Dorcas – era ghiacciata – e notò che quella frase l’aveva sorpresa. «Che c’è?» chiese allora, circospetto.

«Niente» rispose lei, piazzandogli davanti la tazza. Le sue sopracciglia erano perfettamente allineate e gli occhi marroni scuriti da un guizzo di fastidio che Evan colse di sfuggita. «Bevi.»

«Fa schifo.»

«Non è colpa mia. Né mi interessa.»

Evan sospirò e trangugiò la pozione. Gli seccò la lingua e anche la gola, ma impiegò poco a raggiungere il suo stomaco e a irradiargli in corpo le sue proprietà, che eliminarono in un batter d’occhio nausea, mal di testa e dolore al fianco. Quando batté le palpebre, si accorse che anche la sua vista era tornata normale.

Gli era rimasto soltanto il sonno. «Grazie» disse quindi, abbassando la tazza e fissandone la ceramica, che si era macchiata coi rimasugli verdi della pozione. «Ti direi che è tempo per me di andarmene, ma avrei qualche domanda...»

Dorcas si riprese anche la tazza e si alzò. «Non avevi detto che non ti interessa tutto di me?»

«Questo era prima di tornare sobrio» affermò Evan, pur sapendo di mentire. A volte esternava i propri cambi d’umore senza riflettere – quindi era in effetti certo di aver pensato non gli interessasse di lei, ma ora non ne era tanto convinto.

La sua testa era un concentrato di indifferenze e noia, curiosità e modi sempre nuovi di esporre la bacchetta e poi ritrarla. Non sapeva quante volte avesse desiderato dare una mano a Robert per poi tirarsi indietro; quanto gli fosse costato dare suggerimenti ad Alisia per poi manifestare un menefreghismo cattivo e assolutamente inopportuno. Anche Ophelia era stata una vittima dei suoi capricci, ma col tempo si era adattata e aveva imparato a prenderlo per il verso giusto. Come quando l’aveva baciata la prima volta. Era stato un bacio brusco, rabbioso, e quasi imposto. Eppure Ophelia l’aveva stretto a sé calmandolo e baciandolo con dolcezza. Poi gli aveva preso le mani e se le era portate sotto la gonna. Quell’estate aveva scoperto quanto fosse imprevedibile la sua Ophelia.

Era convinto che non avrebbe vissuto più niente del genere, perché chiunque altra sarebbe risultata imparagonabile alla figura di lei, al suo comandare fingendosi debole, al potere che esercitava sapendo fino all’ultimo dei suoi segreti.

L’intelligenza è fatta anche di furbizia: le due cose sono a volte imprescindibili, gli aveva detto un giorno, picchiettandogli la piuma della penna d’oca sulla testa mentre facevano i compiti nell’aula studio di Hogwarts.

Dorcas svanì all’interno della cucina e Evan decise di seguirla. Come il salotto, la cucina era piccola e arredata col minimo indispensabile: c’erano un forno, un lungo ripiano a muro contenente lavandino e angolo cottura e su cui erano poggiati svariati utensili; due lampade a olio, abbastanza grandi da consentire un’illuminazione decente col calare delle tenebre, erano fissate ai lati opposti della stanza. In ultimo, una minuscola isola con tanto di sedie – palese sostituta del tavolo da pranzo, assente – era collocata al centro del locale e lo divideva da Dorcas.

Osservò quest’ultima usare la magia per pulire tazza e bicchiere nel lavandino, che si sciacquarono da sole consentendole di voltarsi e affrontarlo. «Dovresti andartene.»

«Dopo che mi hai finalmente invitato a entrare? No, non penso proprio.»

«Perché finiamo sempre col discutere, Evan?» domandò lei, con voce mite. «Non ho voglia di giocare con te. Mi va bene aiutarti, se è aiuto ciò che cerchi, ma…»

«Io non cerco aiuto.»

«No?» Dorcas si adagiò contro il bordo del piano cucina e inclinò il capo, il taglio degli occhi più felino del consueto. «Continui a presentarti al mio negozio nel tempo libero, sia da sobrio che da ubriaco. Farnetichi sul voler conoscere la storia di ogni oggetto che vendo, dopodiché esterni giudizi sul mio modo di contrattare coi clienti, o fai una disamina annoiata delle persone che ritieni scialbe, per poi lamentarti ad alta voce e con fin troppa sincerità del tuo essere nei miei dintorni.» Si interruppe e la sua espressione divenne gelida. «Dimmi, Evan Rosier: se la tua scelta è servire Lord Voldemort, perché continui a parlarmi?»

Potrei dirti che sto giocando al gatto col topo e che Rabastan si incazzerà da morire, ma perché dovrei farlo? Ormai sono in ballo. «Perché non ho niente da fare» replicò Evan, sollevando le spalle con fare menefreghista. «E mi piace giocare con chi mi suscita un po’ di interesse.»

«Io non sono un gioco, Evan. Un anno fa ti ho avvertito: se servirai lui, darò la caccia a te e a tuo padre» ribatté Dorcas con un tono simile a un rimprovero. «Finora non te l’ho ricordato perché, in fondo, pensavo avresti finito col cambiare idea. Poi ho capito che no, non poteva essere così facile. Che vuoi qualcosa per prendere in considerazione la possibilità di non morire per mano degli Auror.»

Le nuove proposte di legge di Bartemius Crouch prevedevano l’esecuzione per chi rifiutava l’arresto. Se il Wizengamot le avesse accettate, ci sarebbe stata una caccia spietata. Maledizioni Senza Perdono lanciate anche dagli Auror, torture durante gli interrogatori, manipolazione mentale, uccisioni al minimo accenno di ribellione.

Fino a quell’anno, aveva scritto la Gazzetta del Profeta tramite la penna velenosa di Rita Skeeter, il Wizengamot aveva votato contro tutte le proposte di Crouch inerenti le Maledizioni Senza Perdono, ma l’inasprirsi degli attacchi aveva reso l’atmosfera sgradevole a livello politico. Minchum non desiderava fare la figura dell’idiota e i componenti più anziani del Wizengamot cominciavano a temere di aver concesso troppo potere ai Mangiamorte.

Nel suo futuro c’erano quindi due sole opzioni ed entrambe conducevano alla morte – che fosse lui a cercarsela o meno.

Evan strinse gli occhi e avanzò verso Dorcas. Non voleva pensare a quegli scenari, non ancora. «Cosa pensi io voglia?» chiese invece, portando la conversazione su binari più sicuri.

Incrociando le braccia al petto, mentre alle sue spalle bicchiere e tazza si mettevano da sole ad asciugare, Dorcas rispose: «Te l’ho appena detto.»

«E se volessi divertirmi e basta?»

«Nell’attesa di diventare un Mangiamorte?»

«Già.»

Dorcas chiuse gli occhi e si massaggiò le palpebre. Evan aveva notato che lo faceva spesso quando era esasperata. Tale impressione si rafforzò quando lei tornò a studiarlo, rivelando un’inaspettata stanchezza. «E vorresti divertirti con me?»

«Può darsi.» Trovati un’altra, aveva detto Rabastan. «Non mi importa del dopo. Né di cosa mi farai. Voglio solo un po’ di compagnia e un motivo per non essere assillato dai miei genitori fino al giorno in cui non deciderò che è tempo di servire il Signore Oscuro.» Dopodiché, non ti vedrò mai più.

Lo sguardo di Dorcas s’increspò, comunicando confusione. «Hai tanti altri amici con cui passare il tempo.»

Evan inarcò un sopracciglio, perplesso. «Non cerco un’altra amicizia. Non l’ho mai detto.»

Le aveva mai dato mostra del contrario?

Esaminò Dorcas con cura, rendendosi conto che forse non aveva mai davvero creduto al suo interesse, scambiando le sue attenzioni per i capricci di un ubriaco che aveva perso la rotta; e così, in modo del tutto inconsapevole, aveva finito col ritenere sciocca la possibilità che il loro rapporto si spostasse su ben altri lidi.

«Dovevo essere più chiaro, in questi mesi?» domandò allora Evan, avanzando verso di lei; colse un guizzo di paura nei suoi occhi che lo spinse a bloccarsi. «Credevo di esserlo stato, Dorcas.»

Lei sollevò una mano, usandola per tenerlo lontano. «Quello che vuoi non è possibile.»

«Perché? Io sono attratto da te e tu da me.»

Dorcas distolse lo sguardo. Il suo bellissimo incarnato, del colore del caramello, si dipinse di rosa sulle gote. «Credi davvero che questa domanda meriti una risposta?» sussurrò, tentando invano di mantenersi distaccata.

«Non sono stato io a uccidere Alphonse Walsh» sbuffò Evan, causandole un sussulto e poi un improvviso moto di rabbia, che la indusse a lanciargli uno sguardo ferino. Le due lampade a olio della cucina cominciarono ad accendersi e spegnersi a intermittenza. «Qualunque cosa abbia fatto mio padre, riguarda lui e lui soltanto» insisté allora, conscio di come la magia stesse impregnando l’aria.

«Mi stai chiedendo di essere intima con te malgrado lui!»

«Oh, smettila di tirarlo in mezzo!»

Dorcas strinse le labbra. «Malgrado te.»

«Me?» ripeté Evan, non capendo.

«Io sostengo i diritti dei Babbani, Rosier» replicò lei, raddrizzando la schiena. La luce tornò stabile, ma la magia rimase percepibile. «Gli stessi Babbani che hanno ucciso Ophelia.»

Fu come se Dorcas gli avesse conficcato la bacchetta tra le costole, arrivando dritta al cuore. Sapeva bene che con quella menzione erano ormai pari – lui aveva citato Alphonse senza alcun tipo di riguardo – ma sentire quel nome uscire dalle labbra di un’altra persona, per quanto questa fosse attraente ai suoi occhi, lo corrose dall’interno, mettendo in subbuglio il suo animo.

Evan avanzò fino a che la mano aperta di Dorcas non gli si posò contro il petto. Lei era alta, ma lui la superava di una buona decina di centimetri, perciò il palmo della sua mano finì col premergli sullo sterno, proprio al centro del torace. «Facciamo finta che loro non siano mai esistiti.»

Un compromesso orribile – rinnegare Ophelia per un po’ di sollievo – ma necessario.

«Ma loro sono esistiti» mormorò Dorcas, dura. «Avrebbero dovuto vivere tanto e più di noi.» Piegò le dita e Evan sentì le sue unghie sfregargli la pelle attraverso la trama fitta del maglione. «Una volta hai detto che siamo simili, come due serpenti…» bisbigliò dopo qualche istante, con voce incolore.

«Perché in fondo siamo inclini a uccidere» mormorò Evan, osservandola con un sorriso beffardo e indifferente. «Ammetterlo non era poi così difficile, vero, Dorcas?»

 

30 giugno 1978

Dorcas

Lavorava da un anno con l’Ordine della Fenice. Nei mesi, si era prodigata nel catturare Mangiamorte, prevenire omicidi e sgominare gli Inferi che avevano cominciato a invadere le strade nelle ore notturne, e in tutto quel tempo le era stato concesso una sola volta di spiare i Rosier…

Forse, dopotutto, era stato meglio così.

 

Li avevano seguiti fino a che non avevano preso la decisione di introdursi in un’abitazione Babbana. Le luci della suddetta erano spente e il suo piccolo giardino rettangolare immerso nell’oscurità. L’aria rimandava l’odore di erba appena tagliata e di diserbante. Nel cielo, della luna si vedeva soltanto un piccolo spicchio, mentre attorno a lei le stelle brillavano tenui.

«Dobbiamo muoverci in fretta» mormorò Fabian, superando il cancello lasciato aperto dagli intrusi. Il suono dei suoi passi era attutito dall’erba umida. Si girò a guardarla. «Hai tirato fuori la bacchetta?»

Dorcas annuì e gliela sventolò davanti alla faccia. «Sono pronta a fermarli, nel caso in cui tentino di scappare.»

«Bene.»

Salirono i gradini ed entrarono in casa appena in tempo per udire delle grida strozzate provenire dai suoi piani superiori. Fabian accese la bacchetta e corse su per le scale. Dorcas lo seguì senza pensarci due volte.

Si ritrovarono ben presto in un piccolo e stretto corridoio, in cui erano esposte tre porte. Dalla base della più vicina, collocata alla loro destra, s’intravedeva un sottile fascio di luce gialla; vi si diressero senza alcun piano, se non quello di fermare i Mangiamorte.

Fabian forzò la porta e quella sbatté con violenza contro il muro, poi balzò dentro la stanza. Fu rapido: disarmò il primo Mangiamorte alla sua sinistra, mentre Dorcas – studiata la scena – pensò a quello a destra. I due Maghi Oscuri, che per la sorpresa in un primo momento si erano chinati sul letto occupato dalle loro prede, tentarono di Smaterializzarsi, ma Fabian fu più veloce e non glielo consentì: corde strettissime avvolsero i loro corpi, costringendoli a cadere inermi sul pavimento ai piedi del letto.

I Babbani che avevano salvato ansimavano avvolti in candide lenzuola, gli occhi puntati sui Mangiamorte e le espressioni terrorizzate. Erano due anziani, marito e moglie. L’uomo si teneva una mano al petto, quasi fosse sul punto di avere un infarto, mentre la donna balbettava facendosi il segno della croce.

Penseranno di essere stati salvati da un’improbabile banda di ladri, si disse Dorcas, mentre Fabian esaminava i Mangiamorte a terra e strappava loro le maschere. I volti dei due criminali, illuminati dalla bacchetta dell’Auror, parvero a Dorcas del tutto sconosciuti. Erano dei ragazzini di non più di diciotto anni, freschi di scuola e per questo facili all’arresto.

I pezzi grossi non vanno in giro per le case dei comuni Babbani, aveva continuato a ripetere Edgar nell’ultimo anno, a ogni riunione. So quanto frustrante questo possa essere, ma dobbiamo mettercelo bene in testa.

«Chi… chi siete?» gracchiò all’improvviso il Babbano, guardando da lei a Fabian con espressione impaurita. Si era messo a sedere dimostrando un coraggio tardivo, la bocca tremante sormontata da grossi baffoni ingialliti dal fumo di sigaretta. «Non abbiamo molti soldi…»

«Vi abbiamo appena salvati, caro signore. Può tenersi i suoi spiccioli Babbani» disse Fabian, brusco, mettendosi in piedi. «Ma immagino che tra poco non lo ricorderete» aggiunse poi con voce divertita, prima di voltarsi verso Dorcas. «Obliviali, io cancellerò la tua presenza dalle menti di questi Mangiamorte, prima di Smaterializzarmi con loro. Si faranno il resto della serata all’Ufficio Auror, poi andranno dritti ad Azkaban.»

Di solito procedevano così. Fabian manipolava i ricordi, inducendo i prigionieri a credere di essere stati colti il flagrante dagli Auror durante una ronda, e levava loro qualunque riferimento a maschere e maghi sconosciuti che avrebbe potuto attirare la curiosità del Ministero della Magia e dei Mangiamorte celati al suo interno.

Dorcas annuì. Si avvicinò al letto e osservò i due Babbani, conscia di poterli vedere in viso quando invece a loro era negato il contrario: indossava la maschera bianca e rossa dell’Ordine della Fenice, proprio come Fabian. Era leggera ed elegante e si adattava a ogni volto, senza risultare di facile intralcio durante i duelli.

Mosse la bacchetta e cominciò a eliminare dalle menti di marito e moglie i ricordi spiacevoli di quella notte, mentre Fabian portava via i due Mangiamorte ricordando loro quali diritti avessero e quali invece no – «E sono più quelli che non avete di quelli che vi spetterebbero! Grandioso, non trovate?»

Dorcas cercò di non ridere, ma le risultò difficile: Fabian era divertente come pochi altri. Quando finì di Obliviare i Babbani, abbandonò la stanza approfittando della loro momentanea confusione. Le loro menti avrebbero impiegato del tempo a riprendersi: la psiche dei Babbani era fragile e incline a disfarsi. Una modifica ripetuta dei ricordi rischiava sempre di lasciare terribili effetti collaterali, soprattutto nei soggetti anziani.

Una volta fuori dall’abitazione e chiuse a chiave le porte e i cancelli, Dorcas si Smaterializzò, tornando al Quartier Generale. Ginger Court era nascosta tra i rami alti delle querce piantate da Elphias Doge durante l’infanzia, con le sue pareti rosa antico e l’ampio portico illuminato appositamente per i visitatori.

Dorcas salì i gradini e bussò alla porta. Fu Dedalus Diggle ad aprirle. Dietro di lui, Sturgis Podmore parlottava di una missione che lo aveva visto di nuovo faccia a faccia con un Molliccio.

«Allora, io non ci tengo a vedere mia madre ogni volta che ne incontro uno! Non sono entrato nell’Ordine per ritrovarmi ad affrontare quella vecchia stronza, sai?» stava borbottando, agitato. Salutò Dorcas con un cenno del capo e aggiunse: «E Fabian? Dov’è?»

«Ha portato due Mangiamorte al Ministero» rispose Dorcas in tono neutro, mentre Dedalus richiudeva allegramente il battente. «Pesci piccoli, ma abbiamo evitato che uccidessero una coppia di anziani nella loro abitazione.»

«Facile prendersela con dei Babbani di una certa età che non possono neppure difendersi con la magia!» esclamò Dedalus, indignato, levandosi il cappello a cilindro viola dalla testa. Era un uomo minuto, all’incirca sui quarant’anni, dai folti capelli grigio topo. Di solito era energico, tanto da emozionarsi per un nonnulla, tendeva però a diventare iroso di fronte alle ingiustizie, come in quel caso.

«Dedalus, tra poco sputerai fuoco dalla bocca» lo prese in giro Sturgis, afferrandolo per un braccio per portarselo dietro. «Torniamo dalla nostra amabile Ava Bones. Sono sicuro che lei saprà allietarci.»

E salirono le scale, lasciando Dorcas da sola. Lei non se ne preoccupò più di tanto. Entrò in salotto trovando Elphias Doge occupato a giocare a Scacchi Magici con Mundungus Fletcher – una vista insolita, contando che il primo non tollerava il secondo – e Gideon Prewett intento a illustrare a Caradoc i motivi per cui provocare Alastor non fosse esattamente un’idea da asso del Quidditch.

«Non ti lascerà più parlare alle riunioni.»

«Non può farlo.»

«Può, se inizia a tormentare tutti.»

«Oh, per tutte le mazze dei Troll, forse dovrebbe prendere in considerazione il fatto che gli Spezzaincantesimi come me siano bravi tanto e più degli Auror.»

«Lungi da me fare paragoni, ma non è questo il punto» tentò di dire Gideon, sorridente, mentre Caradoc sbuffava. «Non provocare Alastor e noi tutti vivremo meglio, amico.»

Dorcas li superò venendo salutata distrattamente da entrambi, e andò al tavolo per parlare con Edgar, che nel frattempo se ne stava seduto a leggere cumuli di giornali, tra riviste Babbane e magiche, gli occhiali da lettura piazzati sul fondo del naso e l’espressione concentrata.

Assurdo come riuscisse a isolarsi malgrado le tante chiacchiere dei presenti. Mundungus non faceva che imprecare sdegnato a ogni pedone che Elphias gli faceva fuori!

«Io e Fabian abbiamo finito. Due Mangiamorte catturati e portati al Ministero. Coppia di anziani Obliviata e incolume» riferì Dorcas, senza aspettare che l’uomo la notasse.

Edgar trasalì leggermente e posò il giornale davanti a sé. «Ottimo» rispose con voce assonnata, levandosi gli occhiali e prendendo la penna d’oca. Cominciò a scrivere il riepilogo della serata, chiedendole dettagli di varia natura, fino a quando non riempì d’inchiostro un intero foglio di pergamena. Lo aggiunse a un’alta pila di fianco alla mappa della Gran Bretagna e ai suoi segnalini e poi le si rivolse con un sorriso stanco. «Puoi dirti libera fino alla prossima settimana, per quanto riguarda il pedinamento dei Mangiamorte. Nel frattempo, immagino verrai mandata a sorvegliare qualche residenza. Negli ultimi tempi Alastor è ossessionato dai Mulciber. Forse perché il loro unico figlio è pronto a unirsi a Voldemort in questa assurda guerra.»

«Se ne sa già qualcosa?»

«Aberforth ha sentito il ragazzino parlarne con un amico, qualche giorno fa, alla Testa di Porco. Pensava che nessuno lo ascoltasse, ma non si è accorto che Mundungus era al tavolo accanto che lo stava spiando.»

«Travestito?»

«Sì, fingeva di essere un turista proveniente dall’Egitto. Era sommerso di bende, tant’è che Smaterializzandosi qui ha finito col rotolare giù dalle scale del portico» raccontò Edgar, scoccando al delinquente una veloce occhiata divertita. «Ad ogni modo, stiamo pensando di tornare a sorvegliare anche i Lestrange e i Rosier. Ci sono stati degli strani movimenti attorno alle loro residenze, di recente. O almeno così dice Alastor.»

Se ne era convinto, probabilmente era così.

Quella sera, anziché andare all’appartamento, Dorcas si Materializzò nel villaggio in cui abitava con la madre, che si trovava a pochi chilometri da Buckhurst Hill. Witchcott era piccolo e nascosto nella Epping Forest, una delle aree boschive più estese della Gran Bretagna, e vantava al suo interno una comunità di ben cinquanta tra maghi e streghe. Tutti, dai più giovani ai più anziani, tenevano nascosto il villaggio con una considerevole mole di incantesimi, soprattutto da quando la zona era diventata una meta turistica per i Babbani, che vi facevano escursioni assai frequenti nel periodo estivo.

Beandosi del fresco serale, Dorcas decise di camminare a piedi fino a casa. Osservò gli alberi, le panchine di legno rovinate dal sole, le aiuole ben tenute e le luci che animavano le poche abitazioni che davano forma alla cittadina. Lasciò che la mente vagasse nella quiete, lontana dal dolore, dalla paura, dalla morte; le consentì, furba, di tingersi dell’azzurro di un cielo terso e spesso disinteressato.

Una volta inseritasi nella strada principale, con gli occhi bassi e le dita contratte da un odioso torpore, si bloccò di colpo. Voci. Sollevò la testa e trattenne il fiato. Cosa diamine…

Forti grida provenivano da una delle vie alla sua destra. E crescevano d’intensità.

Erano grida d’aiuto.

Agitata, Dorcas tirò istintivamente fuori la bacchetta e accelerò il passo, infilandosi in uno stretto viottolo tra due case di mattoni grigi. Sperò di aver fatto la scelta giusta: se avesse sbagliato, magari prendendo la strada più lunga, era sicura che un innocente sarebbe morto.

Le grida aumentarono, costringendola a correre. C’era un tremendo silenzio, come se la gente nei dintorni avesse scelto di trattenere il fiato ed estraniarsi; Dorcas lo assorbì provando rabbia – nessuno sarebbe intervenuto oltre a lei – e disagio. Così si concentrò sul martellare incessante del suo cuore, che le riempiva le orecchie assieme al rumore delle suole delle sue scarpe sulle strade perfettamente asfaltate e alle urla sempre più frequenti della presunta vittima nascosta tra le antiche abitazioni.

Ben presto, svoltato l’ennesimo angolo, si ritrovò davanti a una scena raccapricciante: due Inferi stavano tirando via un uomo coperto di sangue, mentre una donna – presumibilmente la moglie – cercava di salvarlo lanciando loro incantesimi che però non stavano sortendo alcun effetto, se non quello di infastidirli.

Senza esitare, Dorcas sollevò la bacchetta e la indirizzò verso le due creature oscure: una vampata di fuoco si lanciò in avanti e le avvolse, ignorando l’uomo esanime; la donna, approfittando della situazione, gli si gettò addosso e lo tirò per le spalle, trascinandolo via tra un singhiozzo e l’altro.

Ben presto l’aria prese l’odore della carne bruciata, mentre sopra al tetto di una casa vicina spuntava il nero marchio dei Mangiamorte. Attirò i loro sguardi illuminando il cielo di verde.

Dorcas abbassò la bacchetta e sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene, accompagnato da un sollievo orribile, persistente, perché la casa di sua madre era dal lato opposto, ai confini del villaggio.

Qualcun altro era morto, quella notte.

 

Era inevitabile augurarsi che non fosse mai un proprio caro la vittima designata dei Mangiamorte. La realtà, per quanto crudele e inaccettabile, era difatti rappresentata da una sincera sequela di pensieri: «Sempre meglio agli altri e mai a noi. Sempre meglio a coloro che non conosciamo e mai a chi amiamo.»

Si poteva essere buoni e leali e avere un fetta di crudeltà ben piantata nei recessi dell’animo. E valeva anche il contrario.

 

3 luglio 1978

Dorcas

Ognuno aveva dei segreti, ma alcuni venivano a galla nei modi più imprevedibili. Come avrebbe potuto, quindi, tenere per sé i propri?

 

Era talmente esausta che forse avrebbe chiuso il negozio in anticipo. Si apoggiò al bancone e ordinò al ventaglio che le stava sospeso a pochi centimetri dalla testa di sventolare col doppio della velocità, nella speranza che l’aria calda si disperdesse un po’, ma non ebbe granché effetto: le buttò addosso solo più calore, facendola sudare il doppio.

«Basta» mormorò Dorcas, giunta al limite. Fece svanire il ventaglio con una smorfia e ripose la bacchetta.

«Io credo che dovresti creare del ghiaccio, avvolgerlo in un panno, e passartelo sulla faccia» suggerì Alisia, che sedeva dietro al bancone con lei sfogliando alcuni volumi sulla magia antica.

Si era presentata al mattino, libera da impegni e in attesa – ormai da giorni – della lettera che avrebbe confermato data e ora di un colloquio presso il Ministero della Magia per cui aveva fatto richiesta dopo aver ottenuto i suoi M.A.G.O.; se lo avesse superato, avrebbe cominciato a lavorare lì entro la fine del mese, com’era già accaduto a Marlene.

Nel frattempo, Alisia aveva parecchio tempo libero, che usava per darle una mano col negozio quando non era costretta in casa con sua sorella Wren (quel giorno in gita al mare coi Weasley e di ritorno il mattino successivo).

«Potrei farlo, ma ormai è tardi» rispose Dorcas a malincuore, chiedendosi perché le idee migliori venissero sempre agli altri e mai a chi disperava nel trovarle. Forse perché si ricercava troppo una soluzione, non vagliando mai le alternative?

Alisia girò una pagina, ritrovandosi sul disegno di una stella e sette punte. Ciò le strappò l’ennesimo sospiro. Chiuse il libro e, scocciata, portò le mani alla scollatura dell’abito estivo che indossava, avvicinandone i lembi turchesi; ogni volta che si chinava, le sue curve facevano capolino, generose. «Stamattina Remus mi ha mandato un gufo per ricordarmi di passare a casa sua con Sirius, domani. Non sa cosa portare via.»

Dorcas sorrise e guardò distrattamente oltre le vetrine del negozio: due giovani Auror si erano appena fermati lì davanti. Di uno conosceva addirittura il nome: Shacklebolt. Prestava servizio da un mese, o così le aveva detto l’unica volta in cui le aveva rivolto la parola. «Troppi libri?»

«Una montagna!» fu la risposta, detta ridendo.

Alisia si sarebbe improvvisata addetta ai traslochi, il quindici del mese, poiché James sembrava aver deciso di affittare un appartamento a Hogsmeade, scegliendosi Remus come coinquilino. Ciò aveva smosso un po’ gli animi, primo tra tutti quello di Remus, che in un primo momento non si era detto sicuro di voler accettare, a causa della sua condizione di lupo mannaro. Poi James gli aveva fatto notare che avrebbero abitato a Hogsmeade. Vicino alla Stamberga Strillante. Dove, guarda caso, si era sempre trasformato.

Dumbledore stesso aveva dato il proprio benestare dopo che Remus, angustiato dalle proprie paranoie, gli aveva fatto recapitare una lunghissima lettera, che Dorcas si era premurata di consegnargli al concludersi di una delle innumerevoli riunioni dell’Ordine della Fenice.

«Sta per calare il buio. Dovremmo andarcene» l’avvertì Dorcas, pensando a Remus con un moto di compassione. Cominciò ad abbassare le veneziane alle vetrine con un gesto pigro della bacchetta. «Mia zia Meryl ha cucinato sicuramente per un esercito, sapendo che ti fermi da noi a cena. Anche mia madre sembrava entusiasta…»

Era certa avesse tirato fuori i suoi testi preferiti sulla magia scozzese e solo per aiutare Alisia, che in quell’ultimo periodo aveva manifestato l’intenzione di approfondirne gli studi. Diceva di essere in cerca di informazioni su una branca magica dedicata a rune e simboli magici. Stava persino visionando i libri del suo negozio, ma non era nemmeno a metà della ricerca. Dorcas non aveva potuto fare altro che accatastarle davanti oltre cinquecento libri, che erano stati fissati con cupo orrore.

Alisia era un’avida lettrice, ma quei tomi erano troppi anche per lei. Come se non bastasse, molti erano scritti con le rune, quindi capitava che Dorcas dovesse tradurle qualcosa tra una pausa e l’altra, o che Regulus – fresco di studi e in procinto di ottenere un M.A.G.O. in Antiche Rune – si presentasse con Sirius al seguito, che invece era sempre a Diagon Alley per i lavori di ristrutturazione del futuro pub dei Malandrini.

Dicevano che avrebbero aperto entro la fine di settembre. Nel frattempo, James avrebbe studiato per ottenere il certificato culinario che serviva loro per avviare legalmente il pub, e gli altri si sarebbero impegnati per curare il locale nei minimi dettagli.

Sirius le aveva detto che non sarebbe stato un normale pub come i Tre Manici di Scopa o la Testa di Porco. Le loro bevande avrebbero contenuto scherzi ed effetti collaterali a scelta atti a divertire la clientela. James, autore dell’idea, stava aguzzando il proprio ingegno per crearle, anche grazie all’aiuto di suo padre e di Lily, le cui doti in Pozioni erano nettamente superiori alle sue.

Alisia scese dallo sgabello e cominciò a mettere da parte i libri, risistemando quelli che aveva già letto e tenendo invece sotto al bancone quelli che doveva ancora consultare. «Sono sicura che divorerò tutto ciò che tua zia ci farà trovare» promise, umettandosi le labbra. «A proposito, come si trova con tua madre? La convivenza funziona?»

Dorcas si era trasferita definitivamente nell’appartamento sopra al negozio, una decisione – presa nei primi giorni di giugno e rimandata più volte – che le era tuttavia risultata indigesta dopo l’attacco dei Mangiamorte al villaggio di Witchcott. Sua madre, conscia delle sue ritrosie, si era impuntata affinché se ne andasse comunque. Non voleva vederle accantonare i propri desideri a causa della guerra. Per di più, aveva sottolineato Cassandra con una notevole testardaggine, il loro accordo coi Lestrange le teneva al sicuro. Nessuno, le aveva ricordato indicandosi, le avrebbe torto un capello.

Dorcas aveva finito col cedere. A quel punto, la zia Meryl aveva fatto le valigie e si era trasferita da sua madre per tenerle compagnia. Cassandra era perfettamente in grado di vivere da sola, ma a Meryl non importava.

«Sì, ma non è una novità, hanno vissuto assieme quando andavano a Hogwarts, quindi si è solo dovuta adattare ad alcune novità» spiegò Dorcas, alludendo alla cecità di Cassandra.

A volta si chiedeva cosa fosse accaduto all’Ufficio Misteri e quale errore sua madre avesse commesso con la magia. Avrebbe potuto perdere la vita, non solo la vista, eppure era stata in grado di uscirne viva. Dopo, era rimasta ricoverata al San Mungo per mesi, sorvegliata anche da alcuni colleghi Indicibili. Era una fortuna che fosse stata rilasciata. Da quel momento, però, non aveva più potuto lavorare al Ministero. Non che la mancanza di un impiego avesse inciso granché sulle loro vite: possedevano un patrimonio considerevole nascosto all’interno di una camera blindata alla Gringott, che i Lestrange rimpinguavano a causa del debito che avevano nei loro confronti.

Pensando a quest’ultimo, Dorcas posò gli occhi su Alisia. Le aveva tenuta segreta l’intera faccenda, anche se sapeva bene che non avrebbe dovuto. Nondimeno, era altrettanto cosciente di quale legame vi fosse tra l’amica e Rabastan, sebbene questa avesse cominciato a disprezzarlo in un modo che si discostava dal precedente rancore.

Lo odiava a morte. Forse per Bellatrix? Alla fine, era stata lei a uccidere sua madre. Lei e un Mangiamorte non identificato. All’inizio, Dorcas aveva pensato si trattasse di Rodolphus, ma quella sera – come si era poi ritrovata a raccontare ad Alisia l’estate passata – l’uomo si era recato a casa sua per la solita consegna, e proprio nel medesimo orario dell’omicidio. E dubitava che Rabastan fosse stato coinvolto, poiché non facente parte della cerchia; persino Regulus aveva messo in dubbio la presenza del ragazzo, indicando come probabile partner Antonin Dolohov, che sua cugina aveva spesso citato alle cene di famiglia, prima che lui e Sirius fuggissero da Grimmauld Place. L’amica, pur tuttavia, non era mai parsa convinta delle loro teorie.

Mentre chiudevano il negozio tra una chiacchierata e l’altra, Alisia passò accanto all’Avversaspecchio del Seicento che Dorcas aveva tirato fuori dal magazzino la sera precedente e che aveva incastrato tra due sedie di broccato che risalivano a non più di un secolo addietro.

«Alis» l’avvertì, ricordando cosa facesse quel manufatto se erroneamente toccato, «stai alla larga dal…» Uno strillo la interruppe. «Oh, per tutti i Pixie!» mormorò, facendo il giro del bancone.

Troppo tardi: Alisia si era sporcata da capo a piedi del liquido giallognolo che l’Avversaspecchio sputava addosso a chiunque gli si facesse troppo vicino.

La ragazza si guardò, scioccata, poi fissò Dorcas. Si ripulì la faccia col dorso di una mano e arricciò il naso. «Ma che diavolo…»

«Un mago burlone del Seicento che voleva vendicarsi del vicino di casa per avergli riempito il tetto di casa di cacca di Doxy. Glielo attaccò nell’androne d’ingresso con un Incantesimo di Adesione Permanente fingendo di voler migliorare la sua sicurezza. Dovettero abbattere il muro per staccarlo» spiegò Dorcas con dolcezza, cercando di ripulirla con la bacchetta. Finì con l’inzupparla senza ottenere risultati e Alisia gemette. Gocciolava liquido giallo solo dal vestito, però, poiché il resto si era sistemato in un battibaleno. «Okay, piano b: nel mio appartamento.»

Salirono e una volta in salotto pregò Alisia di levarsi il vestito, così avrebbe avuto modo di metterlo in ammollo con alcuni prodotti che sapeva lo avrebbero riportato al suo stato originale entro una decina di minuti.

«Ti presterei qualcosa di mio, ma non credo di avere niente che ti stia» si scusò Dorcas, cercando di essere delicata, mentre richiudeva la porta dell’appartamento. Aprì la finestra con uno sventolio della bacchetta e permise alla luce esterna, seppur residua, di illuminare il soggiorno. «Voglio dire, magari entreresti in qualche abito, ma sei più bassa di me e… beh…» le mosse una mano davanti al petto per farle capire cosa intendesse.

Alisia si fissò il seno e arrossì. «Sì, credo di aver capito il problema.»

Dorcas annuì con vigore. Fece comparire un piccolo catino e glielo mise davanti. «Vado a prendere le erbe e i sali.»

Sparì in cucina e rovistò nei cassetti finché non trovò tutto ciò che le serviva. Nell’osservare l’isola della cucina, pulita e priva di qualsivoglia utensile poggiato sopra, le tornò alla mente Evan. Sentendosi a disagio, strattonò il sacchetto coi sali, cui riservò un’occhiata approfondita per capire se fossero quelli che le servivano, poi tornò in salotto.

Alisia teneva il vestito tra le braccia e lo stava usando per coprirsi, dondolandosi da un piede all’altro nell’attesa, gli occhi chiari puntati fuori dalla finestra aperta. Il cielo, notò Dorcas, aveva assunto una piacevole tonalità di viola scuro.

«Oh, credo di aver lasciato la bacchetta sul bancone del negozio» l’avvisò Alisia non appena la vide. Le sue gote era imporporate di rosso. «Non avevo intenzione di restare in mutande» aggiunse con una punta di ilarità, buttando il vestito nel catino. Poi, come se si fosse appena resa conto di qualcosa, portò le mani ai capelli e li piazzò su una spalla. Dorcas notò quel rapido movimento – come avrebbe potuto non farlo? – e scorse tra le sue ciocche corvine un disegno rosso impresso sulla pelle.

Un vago ricordo le stuzzicò la memoria, ma in un primo momento Dorcas non vi si soffermò più di tanto. Fu solo quando cominciò a lavorare sul vestito di Alisia, mentre quest’ultima si sedeva sul divano con impazienza, che quelle linee rosse portarono definitivamente a galla qualcosa.

I sedici anni di James Potter, nel bagno dei Prefetti al sesto anno. Alisia che si spogliava per buttarsi in acqua. Anche allora era stata fulminea nel coprirsi, ma Dorcas era riuscita comunque a intravedere delle linee rosse sulla sua spalla sinistra. Forse era stata l’unica a scorgerle, essendo la più vicina a lei.

Un tatuaggio?

«Quindi anche tu ne hai uno?» chiese allora, non riuscendo a trattenere la curiosità. Stava muovendo la bacchetta in senso antiorario, facendo vorticare il vestito nel catino di legno; l’acqua aveva cominciato a colorarsi di giallo.

«Uno?» chiese Alisia, confusa. Aveva stretto le braccia al petto, quest’ultimo protetto da un reggiseno di sottile pizzo nero. Dorcas aveva come l’impressione che dopo la cena sarebbe andata da Sirius. «Non credo di aver capito.»

«Tatuaggio» chiarì Dorcas, indicandole la spalla con la mano libera. Si inginocchiò di fronte al catino e aggiunse: «Come Sirius. Anche lui ne ha uno fatto con l’inchiostro rosso. No?»

Alisia avvampò. Anzi, non solo, mosse le labbra mimando un’imprecazione. «Io… sì, più o meno. Non è un tatuaggio di coppia… proprio no» ripeté, visibilmente in difficoltà.

Dorcas trattenne a stento un sorriso e mosse la bacchetta in senso orario: l’acqua cominciò a ripulirsi e con lei il vestito. «Beh, ricordo che Sirius aveva la costellazione del Capricorno sul petto. Mi chiedo come abbia fatto James a non accorgersene, quella volta nel bagno dei Prefetti.»

«Astronomia non gli è mai piaciuta... come a tutti, del resto» affermò Alisia con un velo di sdegno. Lei andava matta per quella materia, tanto da aver ottenuto un G.U.F.O. all’esame del quinto anno. Una volta le aveva raccontato che era sempre stato motivo di battibecco con la sua defunta madre, che trovava le stelle e i pianeti del tutto inutili a livello pratico.

Un’eresia indefinibile come giudizio, aveva borbottato Alisia.

«Cos’è? O meglio… che costellazione è? Scorpione?» domandò Dorcas, notando l’evidente imbarazzo dell’amica per l’argomento. Doveva essersi tatuata attorno al quarto anno, magari prima che lei e Sirius litigassero.

L’ennesima domanda sul tatuaggio costrinse Alisia a emettere un sospiro rassegnato. Si scostò i capelli dalla spalla e le mostrò il disegno. «Indovina. Vediamo se sei più brava di James in Astronomia.»

Dorcas inclinò il capo e smise di muovere la bacchetta, gli occhi puntati sulle linee rosse. Non impiegò molto a riconoscere la costellazione che svettava sulla pelle nivea dell’amica, poiché non era una forma facilmente dimenticabile. «Cane Maggiore. Oh, perché non ci ho pensato prima?» Tipico di Sirius, in effetti. Molto auto celebrativo. «La sua stella più luminosa, anzi, la stella più luminosa di tutto il cielo... è Sirio

«Brava. In effetti, ora che ci penso hai un M.A.G.O. in Astronomia, no?» disse Alisia, lasciando trasparire una nota d’invidia. «Sono così abituata a vederla snobbata come materia, da aver dimenticato che hai ottenuto tutti i M.A.G.O. esistenti, persino in Alchimia.»

Solo grazie alla Giratempo concessa dalla scuola. Il professor Slughorn e la professoressa McGonagall si erano prodigati per farle ottenere tutti i permessi necessari all’utilizzo. E finiti gli studi aveva potuto finalmente restituirla.

Non ne sentiva affatto la mancanza.

Dopo il quinto anno, era diventata un peso. Forse perché l’aveva trasformata in una tentazione. Si era difatti chiesta cosa sarebbe successo se l’avesse utilizzata per tornare indietro nel tempo. Se sarebbe stata in grado di salvare Alphonse. Ma aveva sempre saputo che non sarebbe stato possibile, perché il tempo era una linea continua, che una Giratempo non poteva riscrivere a proprio piacimento. Ciò che vivevano era già accaduto; se Alphonse fosse stato destinato a vivere, allora le cose sarebbero andate in modo del tutto diverso.

Forse esistevano entità in grado di trascendere il tempo e lo spazio, ma ai maghi ciò era precluso. Il tempo, diceva sua madre, ha più sfumature di quante ne possiamo immaginare; per qualcosa che cambia, la bilancia tenterà di riportare l’equilibrio.

Gli Indicibili addetti allo studio del tempo erano convinti che le Giratempo fossero strumenti limitati. Che esistesse il modo di creare delle realtà alternative. Che la loro fosse soltanto una delle tante.

Chissà se era vero.

Passarono i dieci minuti stabiliti e Dorcas estrasse il vestito dal catino. Era tornato del suo bel turchese. Lo asciugò, ne fece scomparire le pieghe e lo restituì ad Alisia lindo e pulito, oltre che profumato. Tra i sali e le erbe aveva inserito delle foglie di bergamotto e mandarino, cosicché l’abito ottenesse un gradevole profumo di agrumi.

Quando Alisia prese il vestito e lo annusò per istinto, Dorcas la vide sgranare gli occhi. «Ma… ha un odore meraviglioso!» esclamò, alzandosi. Infilò il vestito e se lo strinse addosso, raggiante. «Grazie. E scusa per averti costretta a pulirlo…» aggiunse, mortificata.

«Non mi hai costretta. Non potevo mica lasciarti uscire a quel modo» le fece notare Dorcas, facendo svanire il catino e il suo contenuto. «Comunque, qui sono io a dovermi scusare. Ho esagerato» disse dopo qualche istante, riservandole un’occhiata di scuse.

«Per cosa?» domandò Alisia, perplessa. Si stava pettinando i capelli con le dita, che ora le poggiavano dolcemente sulle spalle. Le tonalità chiare e scure del blu si abbinavano ai suoi colori, come anche i verdi e i viola, risaltati dal nero delle ciocche e dall’eterocromia delle iridi, oltre che da un incarnato delicato e chiaro come il latte.

In quel vestito turchese sembrava splendere.

Dorcas conservò la bacchetta dopo aver richiuso la finestra con la magia. Osservò il proprio vestito – un corto abito estivo color ottanio che le scopriva cosce – e si ritenne abbastanza soddisfatta del proprio look. «Il tatuaggio. Immagino non sia piacevole da commentare, se lo hai fatto e ti sei pentita» precisò, tornando a scrutare Alisia.

D’altronde, non era uno dei classici errori che si facevano durante l’adolescenza? Di quei tempi, c’era chi si faceva troppi buchi alle orecchie o in altre zone sconsigliate, pratica comune tra i Babbani ma anche tra i giovani maghi. E i tatuaggi? Oh, il Settimanale delle Streghe aveva fatto intere analisi su tale moda e non in termini lusinghieri.

Alisia non rispose subito alla sua affermazione. La seguì invece al piano di sotto, dove recuperò borsa e bacchetta. Fu solo quando arrivarono alla porta, pronte a uscire e Smaterializzarsi, che prese la parola. «Non l’ho scelto io» disse rapida, come se avesse forzato la bocca a sputare fuori ogni parola.

Dorcas inarcò un sopracciglio e si voltò, chiavi alla mano e borsa in spalla. «Cioè? Sirius ha scelto per te? Non mi stupirebbe, certo, ma…»

«Intendo dire» mormorò Alisia con durezza, avvicinandosi a lei, «che è comparso da solo. Non me lo sono fatto tatuare, né me lo sono fatto da sola o con l’aiuto di Sirius.»

Dorcas abbassò la mano e le chiavi tintinnarono. «Comparso da solo?» chiese, vedendo l’interesse trasferirsi dall’imminente cena alla faccenda del tatuaggio.

«Da solo» confermò Alisia, tutto d’un fiato.

Poi le raccontò le circostanze, spiegandole anche degli effetti che quei tatuaggi avevano su di lei e Sirius. Era per questo che stava leggendo tutti i libri del negozio, in cerca di una risposta in merito a quelli che per lei erano a tutti gli effetti dei marchi magici.

Quelle parole imbambolarono Dorcas. Se fosse stata un’altra persona a raccontarle dei marchi, non vi avrebbe creduto. Si sarebbe detta che erano stati imposti da qualcuno come scherzo, ma Alisia era una persona seria e sembrava davvero in cerca di risposte.

«Io… credo di avere il libro che cerchi» le disse alla fine, quando il silenzio calò tra di loro. Fuori si era fatto buio ed era sicura fossero in ritardo per la cena di almeno venti minuti. «O meglio, lo avevo. Ce l’ho. Ma… attualmente non è qui.»

Alisia si torturò le dita, rivolgendole uno sguardo assente che durò pochi istanti. «Per ‘attualmente non è qui’ intendi dire che non l’hai venduto ma è ancora tuo?»

C’erano segreti che dovevano venire a galla per forza. E non tutti si manifestavano nel modo giusto.

«Ce l’ha Evan Rosier.»

 

26 marzo 1978

Dorcas

Perché si erano avvicinati? Qual era stata la forza che li aveva spinti a intrecciare un rapporto? Era stata la perdita? La voglia di trovare sfogo con la violenza? Il perpetuo cercare delle alternative non avendone davvero le intenzioni? Cosa li aveva spinti a cedere?

 

«Non hai detto di non volermi.»

La voce di Evan era roca, bassa e perspicace. Nella cucina di quel piccolo appartamento, si diffondeva prendendo il sopravvento e rendendo Dorcas consapevole di quanto pericolosa fosse la situazione. Di come si sentisse vicina a lui, da un po’ di mesi a quella parte, al punto da mettere in discussione la propria sanità mentale. Era veicolo di malattie, quel ragazzo, e tutte a carico del suo umore.

«Stavamo parlando d’altro» rispose Dorcas, mettendo davanti la ragione per impedirgli di prendere il controllo. Non riusciva – non poteva – immaginarsi con lui.

Non sarebbe stato terribile dare retta al tumulto che le scatenava? Una persona normale non avrebbe dovuto nemmeno pensare all’eventualità di provare un sentimento, di qualsiasi tipo di trasporto si trattasse – meramente fisico o emotivo, era arduo capirlo.

«Vero, e in effetti ho intenzione di porti qualche domanda su di te e i Lestrange, ma prima voglio sapere se sei attratta da me» replicò Evan, chinandosi in avanti. Posò le mani ai suoi lati, sul bancone alle sue spalle, e la imprigionò forzandola a ritrarre il braccio che avrebbe dovuto separarli e che ora, molle, si stava piegando al suo volere.

Evan profumava di gelsomino e alcol. Il suo volto era così vicino che Dorcas non seppe se spostarsi o restare immobile. Cosa gli avrebbe comunicato non distogliendo lo sguardo? Gli avrebbe dato qualche genere di permesso? Lo avrebbe esortato, incrociandone le iridi cerulee?

Sei folle se cedi. Sei folle se permetti a te stessa di provare questo per lui.

«Mia madre stipulò un Voto Infrangibile col padre di Rodolphus e Rabastan, prima che questi morisse» rivelò allora, sperando che quell’informazione lo distogliesse dai suoi propositi.

Ci riuscì. Evan piegò la testa di lato con espressione sorpresa. «Ed è ancora attivo?» si ritrovò suo malgrado a chiedere.

«Mia madre fu abbastanza furba da porre tra le condizioni il passaggio dell’accordo ai parenti più prossimi, quindi a Rodolphus e Rabastan, nel caso in cui al loro padre fosse accaduto qualcosa» spiegò Dorcas, pensando ai segni sul braccio di sua madre. Erano dieci linee nere, una per ogni condizione del contratto. Rodolphus ne aveva altrettante.

«E perché mai venne stipulato un Voto Infrangibile?»

Era una storia molto lunga, poco interessante e vagamente travagliata. Ma era l’unica cosa che la separasse da discorsi ben peggiori. Di conseguenza, Dorcas decise che sarebbe andata per le lunghe. «Per l’eredità che ci spettava. Accadde alla mia nascita, quando venne fuori che mia madre aveva avuto una relazione con un Nato Babbano.»

«Quindi non un Babbano senza magia o un Mezzosangue…»

«Se vogliamo precisare, la purezza del sangue viene a formarsi quando ci si lega a un Purosangue per più generazioni, pur essendoci un singolo Mezzosangue nella stirpe. Almeno secondo le regole delle casate più tolleranti delle Sacre Ventotto.»

«Come i Malfoy e i Nott» commentò Evan, cui si sollevò un angolo della bocca. «Guai a dirlo a Lucius» mormorò, l’espressione che s’inaridiva di colpo, convertendo il diletto in fastidio. «Nega sempre che nella sua famiglia ci siano stati dei Mezzosangue, in passato. Nega i discorsi di suo nonno. Ipocrita, non trovi?»

«Devono la loro fama alla furbizia, ma se non altro sono meno schizzinosi della media» ebbe a dire Dorcas, neutra. «Come ben sai, i Lestrange non sono tolleranti. Mia madre venne allontanata, con buona pace di suo padre» seguitò a raccontare, senza staccare la mano dal petto del ragazzo. Prese, anzi, a martoriare il tessuto del suo maglione, i ricordi che si mettevano in ordine in attesa di diventare udibili. Ogni parola di sua madre era una stilettata al cuore. «Avrebbero accettato un Mezzosangue. Ma un Nato Babbano… andava oltre il consentito.»

«E come mai non fu diseredata?» Le braccia di Evan parvero rilassarsi, ma lui restò proteso e ben deciso a tenersela vicino. «Conosco abbastanza i Lestrange da sapere che sono sullo stesso livello dei Black, in quanto a purezza. Preferirebbero allontanare ogni figlio impuro e vedere la propria casata sparire, che tollerare l’intollerabile.»

«Provarono a comportarsi come dici. Mia nonna, che era la responsabile dell’allontanamento di mia madre, trasferì quasi tutti i cimeli antichi accumulati da mio nonno negli anni, preferendo darli ai parenti Lestrange più prossimi, tra cui appunto il padre di Rodolphus. Il resto venne rivenduto o nascosto, di modo che non potessimo fare pretese alla sua morte.»

«Cosa non calcolò?»

«Suo nipote e i suoi figli. Bastò poco a mia madre per convincere il padre di Rodolphus, una volta morti i miei nonni, a fare uno scambio. Non so cosa promise ai Lestrange e per cosa questi si indebitarono, so solo che riuscì a stipulare un Voto Infrangibile in cambio della restituzione della sua eredità. Tutto l’oro riottenuto negli anni è passato direttamente a me. Una parte è stata usata per comprare il negozio» continuò Dorcas, «mentre il resto è sul mio conto.»

«Ma non è davvero tutto» osservò Evan, abbassando gli occhi sulla mano che giocherellava col suo maglione. Li risollevò con un’ombra intenta a cingergli le iridi chiare. «Manca dell’oro. Ed è quello che ti portano in quei pacchetti. Giusto?»

«Rodolphus dice di aver recuperato l’oro sparso nelle camere blindate di parenti come Rosier, Nott e Selwyn, ma quello che è stato rivenduto a terzi richiede tempo» rispose Dorcas annuendo, stanca. Avrebbe tanto voluto non parlare così a lungo dei Lestrange, anche se le stava venendo comodo con Evan. «Finché non me lo porterà, la sua vita resterà appesa a un filo.»

«E dopo che il Voto Infrangibile verrà spezzato?»

Dorcas attendeva con trepidazione quel giorno. «Non lo so. Dipenderà da Rodolphus. Finora si è comportato in maniera… cordiale. Un po’ minacciosa, a volte, ma cordiale.»

Con un sorriso vago e indolente, Evan fece una constatazione molto sensata. «Solo perché sua moglie non ha avuto la possibilità di metterci bocca.»

E prima o poi lo avrebbe fatto.

 

8 luglio 1978

Dorcas

Nell’Ordine della Fenice le discussioni erano rare. Ogni componente ascoltava con pazienza le idee degli altri, esponeva le proprie e si giungeva – spesso grazie a Edgar Bones – a un compromesso. Ma c’erano situazioni che andavano sul personale e che nessuno avrebbe mai potuto controllare…

 

«Accoglieremo i nuovi componenti dell’Ordine durante il mese di agosto» annunciò Dumbledore, mentre Edgar prendeva appunti con la magia. La sua penna d’oca si muoveva a mezz’aria riempiendo un lunghissimo rotolo di pergamena.

«Mi auguro siano persone con potenziale» commentò Sturgis, che se ne stava chino sul tavolo delle riunioni a osservare la mappa e i suoi segnalini: avevano appena finito l’assegnazione delle nuove zone di interesse dopo ben tre ore di discussioni e scontri.

Anche i turni erano stati rivisti e Dorcas si era ritrovata nuovamente in coppia con Emmeline. Avrebbero tenuto d’occhio la residenza dei Rosier.

Era la seconda volta che le veniva concesso di andarci. Non sapeva perché, ma Edgar si premurava di mandarla sempre ovunque meno che lì, anche se i passati turni di guardia lo avrebbero previsto. Francamente, sebbene in un primo momento lo avesse trovato snervante, Dorcas aveva finito con l’accettare la situazione, pur trovandola oltremodo singolare.

«Una di loro lo è di certo» rispose Fabian, prima che lo facesse qualcun altro. Osservava Sturgis con espressione seria e anche un po’ indignata. «Parliamo di un Auror. Dopo tutta la faccenda riguardante Ira Raynott ho pensato di invitarla a collaborare.»

«Un Auror in più non farà male al gruppo» ammise Sturgis, restituendogli lo sguardo. Tirò indietro i capelli biondi, che di recente aveva colorato di rosa e blu, e aggiunse: «Gli altri?»

«Sono appena usciti da Hogwarts» rispose Gideon, gli occhi nocciola velati di disappunto. «Spero siano solo quei tre ragazzi, o potrei avere da ridire…» borbottò poi a voce neanche troppo bassa adocchiando Dumbledore, che parve far finta di non cogliere le sue allusioni.

Si riferiva ai Malandrini e ad Alisia.

Dorcas sospirò. Era ovvio Alisia non gli avesse confermato la propria presenza. Immaginò che, alla riunione di agosto, sarebbe scoppiato un putiferio. Gideon non poteva impedire alla cugina di rischiare la vita, né era giusto che le facesse pretese. Non era sua sorella, alla fine; e anche se lo fosse stata, non avrebbe comunque potuto decidere per lei.

Nessuno fece altre domande e la riunione si concluse rapida e indolore.

Quella sera, la temperatura era mite e l’aria fresca e rigenerante. Mentre lasciavano Ginger Court godendosi quella miracolosa frescura, Emmeline le si accostò con un sorrisetto. «Sono contenta di tornare a lavorare con te. Mi mettono sempre con Sturgis, come se per me fosse divertente…»

«Ragazza, ti annoieresti senza di me, non negarlo!» esclamò il diretto interessato superandole. «Ci vediamo alla Testa di Porco, non mancare.» E si Smaterializzò.

Emmeline sospirò. «Come non detto.» Diede a Dorcas un colpetto leggero su un braccio. «Ho dimenticato di aver fatto una scommessa e devo raggiungere lui e Caradoc al pub. Ti va di unirti a noi?» chiese poi, con gentilezza.

«Io… non posso, ho un impegno» rispose Dorcas, cercando di non sembrare colpevole. «Magari la prossima volta, okay?»

Emmeline non insistette e la salutò, per poi Smaterializzarsi. Rimasta sola, Dorcas controllò l’ora e si disse che far aspettare Evan non sarebbe stato sbagliato.

Doveva restituirle il libro sui Marchi Magici.

Al pensare a questi, provò una strana sensazione di euforia. I Marchi Magici erano reali. Sirius e Alisia li possedevano! Significava quindi che erano anime gemelle, anche se il lato romantico era trascurabile se si pensava alle possibili implicazioni che una magia simile poteva portare. Condivisione di sentimenti emotivi, dolore e piacere fisico, parziale lettura dei pensieri del compagno… e il resto? Il resto cosa mai avrebbe potuto essere? Quanto c’era di vero nelle leggende riportare in quel libro? Quale connessione magica si poteva instaurare tra due anime affini?

Doveva studiare quel nodo della magia, capire se alla lunga avrebbe potuto mettere i suoi amici in pericolo. E, nel caso, sarebbe stata costretta a trovare una soluzione.

Ogni storia magica aveva un suo fondo di verità. Vi erano domande e relative risposte. Lo studio magico che si faceva all’Ufficio Misteri era, nella sua complessità, in un certo qual modo come la scienza Babbana. Non ne sapeva molto – a Babbanologia la professoressa Relish non vi si era soffermata granché, poiché era una branca troppo specifica e lei trattava temi comuni in modo raffazzonato – ma era certa che la scienza venisse usata per dare una spiegazione ai fatti del mondo. Tempo, vita, morte, natura animale e umana. Studiavano persino le stelle e i pianeti!

La magia si manifestava per caso, ma molto spesso lo faceva con un perché. Era nella natura delle cose, intrinsecamente legata al mondo circostante, tra umani, creature magiche, natura, tempo e spazio; ed era quindi compito degli studiosi della magia scoprire come si muovesse quest’ultima e perché.

Era quindi sicura che i marchi di Sirius e Alisia avessero una base, magari legata ai loro antenati, un qualcosa di naturale con una spiegazione magica logica.

Prewett e Black erano casate antiche che si collegavano a famiglie che popolavano i racconti e le superstizioni del Mondo Magico, come qualsiasi altra stirpe Purosangue. C’erano famiglie in grado di fare cose che ad altri erano proibite. Per esempio, la famiglia di Salazar Serpeverde era l’unica in grado di parlare Serpentese. I suoi discendenti, i poco noti Gaunt, ne erano stati in grado. Loro e loro soltanto, per predisposizione ereditaria. Così com’era assai logico pensare che Herpo il Folle fosse stato, in qualche misura, un antenato di Serpeverde, sebbene non ve ne fossero le prove, se non appunto le capacità di Rettilofono.

Era quindi ragionevole pensare ci fosse qualcosa nel sangue di Sirius e Alisia in grado di manifestare i marchi e trovare i propri simili...

Dorcas meditò a lungo, come aveva fatto spesso da quando Alisia le aveva svelato della costellazione sulla sua spalla, e così fece finché non si rese conto che Evan avrebbe avuto da ridire al suo arrivo – com’era normale, contando che avrebbe dovuto lasciare Ginger Court subito e non starsene davanti alla residenza per trenta minuti camminando a vuoto.

Accigliata, ruotò su se stessa e svanì, riapparendo a Diagon Alley.

Evan era poggiato contro la porta del negozio con espressione vuota, le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti e pantaloni di cotone nero a dargli un look insolitamente sobrio. «Un’ora di ritardo» le fece notare subito, non appena smise di girare. «Pensavo che almeno saresti stata puntuale

«Ho avuto da fare, mi dispiace» replicò Dorcas, sinceramente contrita, guardando la strada e notando che era deserta – non vedeva Auror in giro, né maghi che scorrazzavano nei dintorni della vicina Knockturn Alley. «Hai portato il libro?» domandò poi, riservando a Evan un’occhiata seria.

In risposta, il giovane infilò una mano dietro di sé, prese la bacchetta e fece comparire il volume sui Marchi Magici; la copertina blu veniva risaltata dal bianco avorio della camicia che indossava. «Come mai tutta questa fretta di riaverlo?» le chiese, scostandosi dalla porta per permetterle di aprirla. Conservò la bacchetta e osservò il dorso del libro, disinteressato.

Dorcas infilò la chiave nella toppa e poi con la bacchetta mormorò qualche incantesimo, decisa a non lasciar trasparire i propri pensieri. Poteva condividere tante cose con lui, ma la questione dei Marchi Magici era delicata. «Serve ad Alisia. Sta studiando molto in questo periodo e ho pensato che quel libro potesse tornarle utile» si limitò ad affermare, in tono vago.

«Ho come la sensazione che tu non mi stia dicendo tutto» osservò Evan, seguendola all’interno del negozio. Una volta che le luci si furono accese, raggiunse il bancone e vi posò il volume sopra, per poi voltarsi a guardarla come se avesse appena scoperto un segreto. «Forse... avrebbe senso, ora che ci penso...» aggiunse, pensieroso, scrutandola da capo a piedi.

Dorcas sospirò, dando un ultimo sguardo alla via deserta. «Cioè? Cosa avrebbe senso?»

«Ne hai parlato con Alisia.»

Era andato dritto al punto.

«Okay, Evan» concesse Dorcas, chiudendo la porta. Gli andò vicino e posò le proprie cose accanto al libro. Infine, gli rivolse uno sguardo mesto. «Sì, l'ho fatto. Le dovevo delle spiegazioni. Quindi sa. Ma non ha detto nulla. Voglio dire…» Cercò una risposta, sovrappensiero, finché non ne scovò una adatta. «A lei piaci molto.»

Qualcosa nelle sue parole fece vibrare lo sguardo di Evan, che s’incupì. Quando poi parlò, lo fece in una maniera descrivibile come apatica. «Una volta ho detto una frase simile ad Alisia. Eravamo al terzo anno. Le dissi che piaceva molto a Ophelia.»

«Hai una bella memoria, se ti ricordi una frase detta anni fa» commentò Dorcas, piegando la testa di lato. «Immagino che in fin dei conti siate davvero amici.» A quel punto, le sorse un’altra curiosità. «Come mai piaceva a tua cugina? Me lo sono sempre chiesta.»

«Sai quando qualcuno ci piace a pelle? Pur senza conoscere bene una persona, tendiamo a provare un’istintiva voglia di conoscerla e farcela amica.» Evan allungò una mano e le sfiorò i capelli, andando poi a intrecciare un dito a una sua ciocca scura. La tirò leggermente, prima di aggiungere: «A Ophelia piaceva. Diceva che era dolce e fragile.»

Dorcas si ripeté quell’ultima parola. «Fragile?»

«Così affermava» sospirò Evan con espressione quieta. «Era molto empatica. Diceva che Alisia sembrava triste.»

«Forse non aveva torto» mormorò Dorcas, pensando all’atteggiamento schivo che l’amica esponeva di tanto in tanto.

Evan annuì. «Perché pensi che abbia legato con Alisia? Da una parte, credevo nel giudizio di mia cugina. E poi, tutto ciò che piaceva a Ophelia finiva per piacere anche a me. E alla fine mi sono affezionato. Anche se non sarebbe dovuto accadere.»

Ci sono molte cose che non sarebbero dovute mai accadere, pensò Dorcas osservando le dita di Evan spostarsi, solleticandole il lobo dell’orecchio.

Lui dovette notare il suo sguardo, poiché ritrasse la mano e si poggiò al bancone. Lasciò che una vaga mestizia gli decorasse i lineamenti del viso. «Oggi ho discusso con la mia famiglia.»

«Di cosa?»

«Di lui. Vogliono che partecipi alla prossima iniziazione.»

Dorcas si sentì travolgere da un’ondata di gelido disappunto. «E tu cosa farai?»

Evan si grattò una tempia, spostò lo sguardo altrove. «Non ne ho ancora voglia, se me lo chiedi. E finché sarò libero di dire di no, rimanderò il più possibile.»

«E per quanto ancora ti sarà concesso?»

Una domanda fatta a bruciapelo.

La risposta fu altrettanto rapida. «Non lo so.»

 

12 luglio 1978

Evan

Sentimenti. Di solito non vi si crogiolava, ma per Ophelia era diventato folle, aveva amato e si era arrabbiato. Era sfuggito alle etichette e aveva deciso di fare tutto ciò che voleva, senza porre un freno alla lingua e alle sentenze che tanto di frequente elargiva. E se di una cosa non gli importava, non si faceva alcuno scrupolo ad ammetterlo. Era sempre stato così, anche verso le persone a cui voleva bene. Qualcosa, però, era cambiato – o forse erano le persone che aveva attorno ad averlo contagiato. Non avrebbe saputo dirlo.

Da arido che era, avvinto a un menefreghismo atto a proteggerlo, Evan aveva cominciato a vedere crollare le fondamenta della propria indifferenza; e cascate queste ultime, era risultato inevitabile che anche il resto le seguisse.

 

Stava camminando per i giardini della tenuta cercando di trattenere il fiato, il cielo che andava scurendosi al tramonto. Avrebbe fatto qualunque cosa per non essere lì, ma suo padre lo aveva cacciato durante la cena, intimandogli di non farsi vedere finché non avesse imparato le buone maniere.

Le buone maniere prevedevano che non parlasse male di William Avery. Evan, però, aveva molto da ridire su quell’uomo, già solo per il misero trattamento che riservava a suo figlio.

Tutti sapevano e facevano finta di non vedere. Lui stesso, a voler essere onesti, aveva preferito tacere per buona pace di se stesso, benché in certune occasioni avesse tentato di esortare Robert ad andarsene di casa. Soprattutto in quegli ultimi mesi. Avere una vita privata grazie ai galeoni sui loro conti alla Gringott non era impossibile. Non erano costretti a stare coi propri genitori, neanche per questioni legate al Signore Oscuro.

Me ne andrò anche io, non appena troverò un posto che mi piacerà, si disse Evan, osservando le siepi infestate dai gelsomini. Si fermò e sentì crepitare i residui di qualche magia; sua madre doveva aver piantato nuove piante. Era eccezionale in tutto ciò che riguardava l’Erbologia, un talento che purtroppo non gli aveva trasmesso.

Si mise in ginocchio e fece scivolare il palmo della mano sotto a uno dei fiori della siepe più vicina. Contò i petali – erano cinque – e ne studiò la forma a girandola. I gelsomini rampicanti erano diversi da quelli comuni, che invece presentavano una comune forma a stella; avevano anche un odore più dolce e gradevole, perfetto per profumare i giardini, o così gli aveva detto una volta sua madre.

Erano le uniche cose che sapeva. Tutto il resto si legava a ricordi amari.

Evan si rimise in piedi e superò un’altra cinta di siepi, finché non raggiunse un piccolo spiazzo circondato da basse panche di pietra e al cui centro svettava la statua di una ninfa. Da lì si potevano rimirare i cancelli di ferro della tenuta, che davano su una strada deserta.

La residenza dei Rosier era isolata dai vicini villaggi magici e Babbani, come quelle dei Malfoy e dei Lestrange. Erano gli Avery che se ne stavano a pochi chilometri da una minuscola cittadina, la maledetta schiera di case vecchie che Ophelia aveva desiderato visitare a ogni costo a causa della sua passione per i Babbani.

Era morta tra il mondo dei maghi e quello dei non maghi.

Evan inspirò, poi espirò, cercando di calmarsi. E nel farlo, inavvertitamente, i suoi pensieri scivolarono sugli avvenimenti recenti. Su quelle settimane in cui la sua quiete era andata a formarsi frequentando un certo negozio di antiquariato in Diagon Alley e la sua proprietaria.

Pensò a Dorcas e si chiese perché fosse così testarda. Si fingeva fredda e priva di sentimenti, ma era ben più appassionata di quanto non volesse dare a vedere. Del resto, non era forse quell’odio smisurato per la famiglia Rosier – per mio padre, pensò Evan – ad accendere le sue braci interiori?

Gli sfuggì una bassa risata, che si perse al posarsi degli occhi sulla strada oltre i cancelli sigillati. Si irrigidì, incerto, e si chiese se non avesse avuto un’allucinazione.

Per un solo attimo, gli era parso di vedere Dorcas.

Rimase immobile finché il corpo non decise di farlo avanzare fino a che la strada non gli fu sbarrata dagli stessi cancelli. Abbastanza vicino, osservò i due lati della strada, ma non vide nessuno. Devo essermelo immaginato, pensò Evan, riempiendosi una guancia d’aria per scacciare le brutte sensazioni che gli si erano appollaiate sullo stomaco.

Forse, si disse inquieto, mentre tornava indietro e la luna sbucava nella volta gradualmente più scura, Dorcas Meadowes mi piace più di quanto dovrebbe.

 

26 marzo 1978

Dorcas

Non tutto doveva avere un senso. Non tutto doveva combaciare. Eppure aveva cercato di unire i loro pezzi, nella speranza che non si staccassero. Per salvarlo. No, per salvarsi. Era un conflitto che Dorcas avvertiva perenne e che la facenva sentire sola e spaventata. Ormai era sempre sola e spaventata, rinchiusa dentro se stessa.

 

Evan la prese per un polso e la tirò forte contro di sé. Andarono a sbattere contro l’isola della cucina rompendo la tregua che la storia di Dorcas aveva creato in quei minuti.

L’aroma di gelsomino coprì ogni altro odore, slacciando pian piano le ritrosie e annullando quel parziale ghiaccio in cui si era avvolta da quando aveva invitato Evan a entrare in casa sua – l’errore peggiore, quest’ultimo, poiché calcolabile e volutamente ignorato.

È solo un ragazzo, solo un corpo, niente di cui avere paura.

«Evan» borbottò Dorcas, sollevando la testa con le labbra tese. Era premuta contro il suo petto, ora, e percepiva la stretta salda del suo braccio attorno alla vita. «Se stai pensando di portarmi a letto, la risposta è no.»

«Magari non volevo chiederti questo» la prese in giro lui, con espressione distaccata. Il suo viso voleva esprimere sentimenti opposti al suo corpo – poiché quest’ultimo era caldo e accogliente, perfetto per sciogliere rimostranze e abbattere muri.

Dorcas pensò all’ultima volta che qualcuno l’aveva stretta a quel modo. Gli abbracci di Alphonse erano stati possessivi e un po’ goffi, ma l’ultima volta, proprio l’ultima, erano diventati intimi al punto da scatenare voglie che lei stessa non aveva pensato di poter manifestare. Si era sempre pensata insensibile, su quel fronte, nonostante il semplice baciarsi le avesse suggerito non fosse così. Ma un bacio non era indicativo di nulla, non per lei.

Con un profondo respiro, Dorcas posò entrambe le mani sul petto di Evan. Spinse piano, perché sapesse che il suo era un no, e lo guardò dritto negli occhi. Non voglio.

Se non l’avesse capito, se non l’avesse accettato, allora avrebbe dato ragione a tutta la diffidenza che nutriva nei suoi confronti – l’inestinguibile sospetto che fosse solo fatto di male, di violenza e di morte, proprio come suo padre.

Ma forse, dopotutto, non era così.

Le mani di Evan si sollevarono di colpo. Nei suoi occhi cerulei le ombre svanirono, lasciando spazio a un miscuglio di infelicità che Dorcas rimirò con sgomento. Le espressioni, le gestualità, il modo di camminare, persino le parole: tutto trasmetteva sentimenti quali rabbia, amore e odio, ma gli occhi – oh, gli occhi! – erano capaci di pugnalare.

«Ho bisogno di sciacquarmi il viso» borbottò lui, aggirandola e raggiungendo il lavandino. Aprì l’acqua e si ripulì sotto lo sguardo perso di Dorcas, che si limitò a osservarlo col cuore che, seppur scavato da un metallo affilato e invisibile, batteva all’impazzata.

Poi Evan chiuse l’acqua, si asciugò con uno strofinaccio pulito tra quelli appesi sopra al ripiano e si poggiò ai bordi di quest’ultimo prendendo un profondo respiro.

Le sue spalle erano ampie, mostravano fragilità che di norma avrebbero tenuto nascoste. Erano il muro spesso dietro cui Evan Rosier tendeva a nascondersi.

Non seppe se fu quella consapevolezza a smuoverla. Dorcas non era brava nei rapporti umani – capire le persone e approcciarle erano due cose differenti – ma per lui, come avrebbe fatto con Alisia e Regulus, per lui cercò di compiere uno sforzo. D’altronde, non aveva spesso ribattuto alle sue accuse dicendogli che lei dopotutto era un serpente buono, di quelli incapaci di mordere e avvelenare?

Seppe solo che gli si fece vicino e lo prese delicatamente per un gomito, obbligandolo a voltarsi. Evan la lasciò fare con quel suo menefreghismo collaudato, che gli prendeva la bocca rendendola bianca come una pagina tutta da scrivere, e che dava agli occhi una sfumatura cattiva che non aveva ragion d’essere. Le concesse di avvicinarsi sebbene instabile e amareggiato.

Dorcas lo tirò vicino e lo strinse in un abbraccio, anche se aveva paura che l’avrebbe stretta tra le sue spire per morderla – perché il veleno Evan Rosier lo aveva, grondava dalla sua pelle nei momenti in cui si sentiva cattivo e fare del male gli sembrava l’unica via.

Non fu propriamente ricambiata, non all’inizio. Evan rimase con le braccia allargate, di cui una retta al bordo della cucina, ma le sembrò di sentire il suo viso accostarsi ai capelli, quasi di riflesso. Poi il braccio che lei gli aveva tirato via si mosse, impercettibile, e andò ad avvolgerle la schiena.

«Aiutami a non pensare a lei, a loro, ai Babbani» sussurrò Evan con voce densa di rabbia, «almeno finché non dovrò servire il Signore Oscuro. Non ti chiedo nient’altro, Dorcas.»

«Perché proprio io?» domandò lei, nascondendo il viso nel suo collo sapendo quanto fosse sbagliato dargli ciò che voleva; quanto lo fosse assecondare anche se stessa. Non voleva restare sola. Non voleva sentirlo solo. Era così stanca di vivere pensando a una persona che non c’era più. Era stanca che per lui fosse lo stesso.

«Non lo so.» Evan respirò tra i suoi capelli, poi vi affondò una mano e la costrinse a sollevare il viso verso il suo. Le dita avvinte alle sue ciocche erano diventate le sbarre di una prigione. «Se lo sapessi, forse non sarei qui.»

E poi, rapido come un serpente, premette la bocca sulla sua e la rese di nuovo viva.

«When all inside you burns like a star
It’s after you burn out that you are

Reborn again,
Reborn again

And maybe if you called out for help
Then I could help you outrun yourself

Come run again
Come run again

We are dust
You are dust.»

(Your Blood (acoustic version) – AURORA)

 

19 luglio 1978

Evan

Di solito era il coraggio quello che serviva. Le scelte erano facili o difficili. Per questo, tanto spesso, ci si doveva costringere a fare il primo passo, pur sapendo che forse – in un futuro non troppo lontano – se ne sarebbe pagato lo scotto.

 

Evan aveva deciso che, per una volta, non avrebbe bevuto. Né sarebbe andato da Dorcas. Aveva voglia di stare con qualcuno che gli fosse solo amico, quindi si recò alla residenza degli Avery in cerca di Robert.

Per quanto ne sapeva, marito e moglie non sarebbe stati presenti, poiché invitati a un evento organizzato dai Malfoy, un incontro a cui potevano partecipare solo i membri della cerchia interna e i rispettivi compagni.

Era sicuro che avrebbe trovato Robert chiuso in camera, a dannarsi l’anima per la vicina iniziazione. Avrebbe cominciato a servire il Signore Oscuro la settimana successiva, prendendo il Marchio Nero. E così sarebbe stato per Wilkes, Mulciber, Snape e Pettigrew.

Sarebbe stato l’unico assente. Evan sperava che il Signore Oscuro non vi badasse, ma sapeva che non sarebbe stato così. Che, nel peggiore dei casi, a pagarne le conseguenze sarebbero stati suo padre e poi sua madre e, Salazar poteva garantirlo, lui stesso.

Entrò nella residenza senza preoccuparsi di avvisare. Gli incantesimi posti alla porta erano in grado di distinguere tra amici e nemici – una banale magia che coinvolgeva il sangue delle famiglie alleate, quali erano in effetti Avery, Rosier e Lestrange. Mulciber e Wilkes erano stati considerati di recente, ma William Avery non li amava al punto da averli accettati a cuor leggero.

Salì i gradini fino a raggiungere l’area notte e camminò tranquillo fino alla porta di Robert. Fece per bussare, ma l’improvviso suono di un gemito lo fermò.

Corrugò la fronte e rimase immobile, le nocche a meno di mezzo centimetro dal legno della porta, quei suoni che riemergevano spingendolo a desiderare di essere altrove.

Beh, questa è una novità, constatò sorpreso, facendo dietrofront. Scese e si recò nel salottino da tè, occupando il divano più grande, al centro della stanza. Si slacciò il colletto della camicia – moriva di caldo – e fissò il lampadario di cristallo che dominava il soffitto, prima di distendersi e riposare la schiena.

Robert era riuscito a farsi coraggio? Doveva, giacché stava consumando un rapporto del genere sotto al tetto dei propri genitori. Con un ragazzo.

Non ne avevano mai parlato, ma Evan sapeva da un pezzo dell’omosessualità dell’amico. L’unico motivo per cui non ne aveva mai fatta menzione, era il totale disinteresse per la cosa. Non lo giudicava, né lo trovava sbagliato. E perché mai avrebbe dovuto metterci bocca lui, poi? Aveva praticato l’incesto senza vergogna finché Ophelia non era morta. E se questo poteva dirsi tollerabile nelle famiglie Purosangue e più in generale dai maghi, non capiva perché amare una persona del medesimo sesso non potesse esserlo altrettanto.

Perché non si poteva avere una discendenza? Ruotava tutto attorno a quello?

Non gli pareva che in tal senso le cose stessero andando granché bene per le coppie normali, anzi: la metà di loro era sterile, l’altra metà aveva avuto soltanto figlie femmine; altri, gli irriducibili, avevano segnato la propria fine con pratiche incestuose che avevano alimentato malattie, deformità e sterilità. E con la guerra in corso, la stessa per la quale anche lui si sarebbe dovuto immolare, molti sarebbero periti o finiti ad Azkaban – dove morte e follia erano garantite e spesso auspicate.

In ogni caso, il disprezzo per i Nati Babbani li avrebbe portati comunque alla rovina. Tanto gli sarebbe valso arrendersi, per una volta. E tollerare, ove necessario, quelle che venivano giudicate come empie aberrazioni, quando non erano nient’altro che discendenti di Maghinò, a detta degli storici della magia, e quindi destinati a riottenere prima o poi quanto perso dai propri antenati.

I Nati Babbani li posso ancora tollerare, con questi presupposti, rifletté Evan, chiudendo gli occhi. Una smorfia seguì quel pensiero. I Babbani puri no. Non ci riesco. Rimembrò il volto del Babbano che aveva ucciso Ophelia e il sangue gli andò alla testa. I Babbani puri no.

Constatato ciò, si rilassò. Prese a fantasticare, immaginandosi altrove, al sicuro, e la mente scivolò verso Dorcas come accadeva ormai di frequente. Era diventata meglio dell’alcol. Poteva bere da lei quanto lo aggradava, di nascosto, senza mostrare segni ad altri.

Nessuno se ne sarebbe accorto. Non subito. E Rabastan avrebbe impiegato mesi a scoprirlo, preso com’era dalle sue lotte contro i Babbani. Se ne andava sempre in missione con Dolohov e Lynette Selwyn, non vedendo altri al di fuori dei due se non forse Melania. O forse non avrebbe più visto neppure quest’ultima, ora che Wilkes era libero e disponibile.

Evan scosse il capo, disgustato. Se fosse stato nei panni di Melania, non avrebbe dato il proprio corpo a Wilkes nemmeno sotto pagamento o induzione da incantesimo. Era un ragazzo schifoso, doppiogiochista e assetato di potere. L’unico suo interesse era prendersi ciò che gli dava rilevanza.

Se gliene fosse stata data l’occasione, avrebbe pugnalato persino i suoi amici.

Dovette passare un’ora da solo nel salottino. Non controllò nemmeno l’orologio, suppose e basta. Stanco, si mise a sedere e aguzzò l’udito, cercando di capire se i piccoli rumori che aveva sentito negli ultimi minuti fossero di Robert e del suo amante, o dei signori Avery.

Questi ultimi erano, neanche a dirlo, un’opzione sgradita. Non li amava e loro non amavano lui, o perlomeno non di recente. Il troppo bere e il rifiuto a ubbidire agli ordini lo avevano reso indigesto ai loro palati sopraffini. Nell’origliare alcune conversazione, era venuto a sapere che anche il suo affermare di voler servire fosse ormai ritenuta una bugia, poiché se davvero avesse voluto farlo, non avrebbe rimandato in alcun modo l’iniziazione.

Avevano ragione? Avevano torto? Ai posteri l’ardua sentenza.

Evan di una sola cosa era sicuro: non si sentiva pronto. Quindi avrebbe rimandato finché gli fosse risultata gradevole l’idea di farlo. E non perché fosse d’improvviso diventato buono – non ci si vedeva, tra i buoni, al contrario di quanto sostenuto da Ophelia – ma unicamente per un puro e banale senso di noia.

Non c’era nient’altro.

Si alzò dal divano e, una volta accostatosi alla porta, la dischiuse con molta delicatezza, abbastanza da creare uno spiraglio che gli permettesse di spiare la sala.

Ciò che vide lo rassicurò.

Davanti all’enorme camino di pietra, mentre fiamme verdi divampavano in attesa, Robert parlava a voce bassa con un ragazzo dai capelli ramati, che Evan non riconobbe, ma che gli era in qualche modo familiare. Lo divertì appurare avesse proprio quel colore di capelli, quasi Robert lo avesse fatto apposta.

Ivy Nott, la sua fidanzata ufficiale, aveva i medesimi capelli rossi.

Si appuntò di prenderlo in giro una volta che gliene fosse capitata l’occasione, poi attese che i due amanti si salutassero – lo fecero con un rapido bacio, un po’ nervoso da parte del padrone di casa, i cui occhi andavano di continuo al portone d’ingresso – e che il giovane sconosciuto entrasse nel camino, svanendo.

Solo a quel punto Evan uscì dalla sala da tè. Il rumore che fece nel chiudere la porta fu deliberatamente forte e causò un sussulto in Robert, che si voltò di scatto verso di lui e avvampò. «Che diavolo… Evan!» sbottò, diventando di pietra. «Da quanto sei lì?»

«Abbastanza da aver visto il tuo ragazzo» sentenziò Evan, decidendo di andare dritto al punto. Robert sbiancò. «Oh, andiamo, come se non avessi mai saputo. Non sono quell’idiota di Frederick, Rob. Al contrario di molti, io gli occhi li ho.»

Era quasi certo di dire il vero. Se gli altri fossero stati attenti osservatori, si sarebbero accorti di lui e Ophelia. E, per quanto ne sapeva, soltanto Robert e Rabastan ne erano a conoscenza, tra i suoi amici d’infanzia, anche se non gliene avevano mai parlato. Lo aveva inuito da qualche vaga allusione di entrambi. Rabastan, poi, sapeva essere assai schietto.

Robert strinse i pugni ed emise un sibilo, che Evan identificò come un rilascio d’aria. «Non dovrai dirlo a nessuno, Evan. Non posso permettermi…»

«Gran bella fiducia.»

«Non sto scherzando.»

«Quando mai sono andato in giro a spifferare segreti?»

«Per Rabastan lo hai sempre fatto» gli ricordò Robert, riportando a galla un periodo che aveva cessato di esistere quando Lestrange aveva finito gli studi.

Evan incrociò le braccia al petto e sbuffò. I suoi occhi indugiarono per un breve istante sui bei pavimenti della sala. Erano tirati a lucido, tanto che ci si sarebbe potuto specchiare. «Non è la stessa cosa e lo sai. Avevamo un accordo e riguardava principalmente Wilkes. Significa che ora non ho motivo di fare la spia.» E non era l’unica cosa che andava chiarita. «E poi, che cazzo, sono il tuo migliore amico e pensi che andrò dritto da tuo padre a dirgli che ti piacciono i ragazzi? Sei serio?»

Rimasero a lungo a fissarsi. Il loro rapporto non era sempre stato rose e fiori, soprattutto quando nelle loro vite era entrato Mulciber. Una volta, Ophelia gli aveva detto che Robert si sarebbe riavvicinato soltanto all’intuire di non essere ricambiato. Avevano dodici anni e nessuna esperienza, e Evan aveva impiegato un po’ a capire cosa intendesse. Fatto stava che, in effetti, nell’esatto momento in cui Wilkes aveva fatto la sua comparsa e Mulciber si era messo a seguirlo come un cagnolino, Robert si era allontanato da quest’ultimo. Quando poi Mulciber aveva iniziato a frequentare Andrea Linton, il loro rapporto si era del tutto deteriorato.

Robert fu il primo a distogliere lo sguardo, come in imbarazzo. Aveva ripreso colore e la sua mascella si era rilassata. «Scusa. È che non è… non è facile. Sono morto se lo scopre, lo capisci?»

«Certo che lo capisco. E meglio di chiunque altro» rispose Evan, facendo sì che l’amico tornasse a guardarlo.

Sapevano entrambi il perché.

Pochi minuti dopo, si ritrovarono nella sala da tè a bere della banalissima Burrobirra. Robert sembrava aver deciso di non dargli un pretesto per ubriacarsi, ormai avvezzo alla sua situazione emotiva e autodistruttiva. Evan avrebbe potuto dirgli di Dorcas, renderlo ulteriormente partecipe e dirgli che il rischio di ubriacarsi era ormai nullo, ma non lo fece.

Per tutto il tempo parlarono di eventi banali, senza indulgere in situazioni che li avrebbero messi in difficoltà, chi per un motivo e chi per un altro.

In un mondo dove con la magia si potevano sondare anche le menti, avere troppi segreti era pericoloso. Anche se i segreti in questione erano all’apparenza banali.

In realtà, erano armi che chiunque avrebbe potuto usare.

Se hai caro qualcosa, arriverà qualcuno e te lo porterà via.

Era una lezione che Evan aveva imparato a proprie spese.

«Cosa farai?»

«Riguardo a cosa?»

«Il Signore Oscuro. E, ti prego, questa volta dammi una risposta seria.»

Evan si passò le mani tra i capelli. Ve le tenne e strinse le braccia attorno alla testa per stiracchiarsi. Quando rilassò i muscoli, si buttò contro lo schienale del divano e guardò Robert percependo il proprio volto indurirsi. «Lo servirò.» Fece una pausa e sorrise. «Ma non ora.»

 

20 luglio 1978

Regulus

Cara Dorcas,

So che faremmo prima a vederci, ma ho bisogno di parlare con qualcuno e al momento mi è impossibile viaggiare fino a Diagon Alley (sfortuna ha voluto che nascessi in estate, avendo quindi l’impossibilità di fare l’esame di Materializzazione a Hogwarts; dovrò rifarmi durante il mio settimo anno).

Non è qualcosa che io possa confessare a Sirius e Alisia, soprattutto perché sono diventati entrambi sensibili a un determinato argomento. E voglio tenere Marlene fuori da questa storia, per il suo bene.

Sì, riguarda Barty.

Da quando mi ha fatto aggredire, ho capito che continuerà a darmi problemi. E li darà anche a Benjy Fenwick, che mi ha confessato mesi fa di aver dovuto prendere dei provvedimenti, quali il non girare da solo per la scuola e l’avere sempre la bacchetta a portata di mano.

Ho deciso di sabotare Barty e rendergli difficile convertire gli studenti che tenterà di avvicinare nei prossimi mesi. So che è inutile, così come so che avrà un altro anno a disposizione, durante il quale io non ci sarò, ma voglio che gli sia ben chiara la mia scelta. Se davvero si unirà ai Mangiamorte finiti gli studi, troverò il modo di smascherarlo. Non mi importa delle conseguenze, né del colpo che arrecherò alla sua famiglia.

Se diventerò un Auror, farò in modo che si senta minacciato.

Sono aggressivo, vero? Nel rileggere queste parole, ammetto di giudicarmi tale. Ho come il sospetto che mio fratello sia riuscito ad avvelenarmi con le sue cattive abitudini!

Mettendo da parte gli scherzi, voglio sapere se pensi sia una mossa saggia. Sei la sola in grado di darmi una qualche risposta, Cas. Ora come ora, sei davvero l’unica. Sirius è diventato mansueto al punto da consigliarmi di non correre rischi; Alisia, invece, sarebbe sì di sostegno, ma vivrebbe con l’ansia di sapermi in pericolo. Stesso dicasi di Marlene.

L’ultima cosa che voglio è che quei tre stiano male per me e temano per la mia sicurezza.

Spero di ricevere presto una risposta (o magari una tua visita a Godric’s Hollow – non posso davvero lasciare questa casa senza Sirius o Marlene, non immagini quanto sia frustrante questa situazione con la Metropolvere).

Con affetto,

R.A.B.

 

23 luglio 1978

Dorcas

Caro Regulus,

Sono consapevole che ci vedremo il giorno del tuo compleanno, ma temo non avremo la possibilità di stare da soli e discutere dei tuoi dilemmi. Preferisco quindi portare avanti questa corrispondenza, nella speranza di riuscire a essere esaustiva e diretta.

Non posso scegliere per te. Parti da questo presupposto. E sempre tenendo ciò a mente, poniti la seguente domanda: ne vale la pena? Vale la pena rovinarsi l’ultimo anno di scuola dietro a Barty Crouch? La risposta verrà da sé.

So che quanto ti ha fatto non potrà essere cancellato in alcun modo, ma se lo saboterai apertamente, rischierai di fare più danno che bene. Ricorda come agiva Rabastan a scuola: la mente di Crouch è piena zeppa dei suoi insegnamenti. Tenderà a reagire, se gliene darai l’occasione.

Inoltre, se il tuo intento è diventare un Auror e unirti poi all’Ordine della Fenice – e accadrà prima la seconda cosa rispetto al superamento dell’addestramento Auror in tempi brevi – allora avrai molte occasioni per torchiarlo e mettere in all’erta chi di dovere.

Lo conosci. Troverai il modo.

Questi sono solo consigli, che puoi benissimo ignorare, ma che mi sento in dovere di darti. Per il resto, hai tutto il diritto di agire come preferisci. Non ti giudicherò, non l’ho mai fatto.

Sentiti in diritto di rispondermi come meglio credi, sai che non mi offenderò (o quasi).

Con affetto,

D. M.

 

«Cosa stai scrivendo? Una lettera?»

Evan era scivolato dietro di lei senza fare rumore, abbandonando la comodità del letto. Dorcas vide il suo riflesso nello specchio mentre si chinava ad avvolgerle le braccia nude attorno alle spalle.

«Rispondo a un amico.»

«Uno dei due Black?»

«Regulus. Ha problemi con Crouch.»

«Chiunque ha problemi con lui» osservò Evan, affondando il viso nel suo collo. Le morse la pelle dietro l’orecchio e tirò, facendola rabbrividire. Le sue mani scivolarono sul davanti e cominciarono a scostarle la vestaglia, insinuandovisi al di sotto. «Il piccolo Black farà meglio a stargli alla larga.»

Dorcas emise un sospiro – le dita di Evan stavano stimolando i punti giusti – e cercò di rispondere mantenendo un certo contegno. «Pensi che… gli darà molti problemi?»

«Crouch a Black?» Evan tirò via le mani e afferrò i lembi della sua vestaglia, facendoli scendere con lentezza lungo le sue spalle. Dorcas si ritrovò nuda fino alla vita, perfettamente esposta al suo sguardo pieno di calore. «Se vuoi una risposta sincera, questa è sì. Non lasciare che il tuo amico venga preso in antipatia anche da lui. Ha già i Lestrange contro.»

Poi le prese il viso tra le dita e si chinò a baciarla, impedendole qualsiasi risposta.

Tepore, indecenza, bisogno – le trasmise tutto con la bocca; l’assaporò come se fosse sempre stato pieno di vita, un’entità luminosa ed estranea al ragazzo che aveva conosciuto negli anni. Quando desiderava, quando dava e prendeva, era un’altra persona.

Lei stessa diventava qualcosa di diverso.

La pelle di Evan era bianca, le braccia percorse da una leggera peluria dorata; quelle note di colore andarono a confondersi con l’incarnato scuro di Dorcas, invitandola ad abbandonare la toeletta per tornare a letto. Lì, entrambi si persero nel reciproco calore.

Era sbagliato. Dorcas ne era cosciente. Si stava esponendo nella speranza di strapparlo a un destino inevitabile, convinta in cuor suo che fosse simile a lei. E Evan – insensibile come pochi altri – le stava facendo credere che sarebbe accaduto, che l’avrebbe in qualche modo salvato.

La realtà era che, per quanto si ostinasse ad alimentare le proprie speranze, quel futuro positivo non si sarebbe mai avverato. Avrebbe perso un pezzetto di sé, com’era accaduto con Alphonse. Avrebbe lasciato che Evan prendesse tutto e lo buttasse via.

E lui avrebbe commesso lo stesso errore.

Si sarebbe ferito senza volerlo.

 

«Ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia
è la mia nostalgia
cresciuta sul ramo inaccessibile
è la mia sete
tirata su dal pozzo dei miei sogni
è il disegno
tracciato su un raggio di sole
ciò che ho scritto di noi è tutta verità
è la tua grazia
cesta colma di frutti rovesciata sull’erba
è la tua assenza
quando divento l’ultima luce all’ultimo angolo della via
è la mia gelosia
quando corro di notte fra i treni con gli occhi bendati
è la mia felicità
fiume soleggiato che irrompe sulle dighe
ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia
ciò che ho scritto di noi è tutta verità.»

(Ciò che ho scritto di noi – Nazim Hikmet)

 

26 luglio 1978

Evan

Era seduto al bancone del Paiolo Magico, ma, diversamente dal consueto, stava sorseggiando della banalissima acqua di bolle. Era fuggito per non sentire l’ennesimo rimprovero – sua madre che lo pregava di mettere la testa a posto, minacciando ripercussioni di cui Evan non vedeva l’ombra – e si era detto che frequentare il pub di Tom fosse l’ideale. Nessuno lo avrebbe cercato lì, soprattutto a quell’ora della sera.

O perlomeno così credeva.

Una figura conosciuta scivolò sullo sgabello accanto al suo e ordinò dell’Acquaviola. «Con una spruzzata di limone, per cortesia.»

Evan abbassò il bicchiere e si girò, sopracciglia inarcate ed espressione forzatamente impenetrabile. «Quindi vieni qui a bere, dopo aver cenato?»

«A volte, quando mi annoio» rispose Alisia, scoccandogli uno sguardo carico di domande. Si fece scivolare una graziosa borsetta dalla spalla per poggiarsela in grembo.

Indossava un prendisole estivo dal taglio elegante, ma molto corto. Al suo collo, come sempre, svettava la catenina col pendente d’argento a forma di stella che si diceva fosse appartenuto alla famiglia Black. E i suoi bei capelli, di nuovo lunghi e mossi, erano legati in una coda alta. Evan li fissò per un attimo, poi spostò gli occhi sul suo viso.

«Oggi sono qui per te, però» continuò Alisia, inclinando il capo e interrompendo la sua analisi.

«Non ho annunciato la mia visita all’oste» osservò Evan, pur conscio che la sua fama di alcolizzato fosse giunta a chiunque. E di certo nella sala comune di Serpeverde ne avevano avuto un gran dire negli ultimi due anni, anche se Robert si era impegnato per mettere a tacere i pettegoli. Una missione fallita sul nascere, avendo in seno un tipo viscido come Peter Pettigrew.

Alisia annuì e le sue labbra si tesero presto in un sorriso. «Avevo in mente di girare tutta Diagon Alley e poi passare a Hogsmeade, ma lei mi ha detto che ormai frequenti solo questo posto.»

«Non mi vogliono più alla Testa di Porco, l’ultima volta ho bevuto troppo.» Non era propriamente vero. Ad Aberforth non importava un fico secco dei suoi problemi con l’alcol, ma Evan aveva come l’impressione che le sue ultime visite gli fossero risultate indigeste. Per giunta, in quei mesi il pub del vecchio si era riempito di individui legati al Signore Oscuro che, al riconoscerlo, non avevano fatto altro se non disturbarlo, chiedendogli quando avrebbe prestato servizio. Tra questi, c’era quell’impiccione di Mulciber.

Tom posò l’Acquaviola davanti ad Alisia; sul bordo di vetro aveva messo una fetta di limone, una decorazione carina che gli fece meritare un sorriso. «Grazie.» Andato via il proprietario, la ragazza tornò a parlare. «Sai perché sono qui.»

«Non ci sono molte opzioni.» Evan aveva immaginato che prima o poi avrebbero avuto una conversazione. L’occasione si era presentata a causa di quel libro sui Marchi Magici. «Anche se potrei azzardare una possibile infelicità nata il giorno del mio abbandono come Prefetto.»

«Quel tradimento l’ho superato un anno fa.»

«Non ci credi nemmeno tu.»

Alisia rise. Prese la sua Acquaviola e la sorseggiò. «Evan, sai quanto io tenga a lei, vero?»

Non ne aveva mai fatto mistero. «Potrei.»

«Bene. Perché non sono qui per farti cambiare idea, come non ho intenzione di far cambiare idea a lei.» Alisia sfiorò il bordo del bicchiere con le labbra. Stava pensando, tanto che i suoi occhi vagavano sulle bottiglie perfettamente allineate sulle mensole alle spalle di Tom. «Il contrario.»

«Ci dai la tua benedizione?» scherzò Evan, pur sentendosi inquieto per qualche motivo che non gli era chiaro. «Pensavo mi avresti fatto un elenco noioso condito di minacce.»

Alisia riprese a bere. Finì il suo liquore continuando a non guardarlo. Quando posò il bicchiere, il ghiaccio sul fondo tintinnò contro il vetro, appena visibile a causa di una spessa condensa. Quest’ultima venne spazzata via dal pollice della ragazza.

«Evan, puoi fare con lei ciò che vuoi.»

Gli occhi di Alisia si spostarono, finalmente, e lo inchiodarono.

Forse per istinto di conservazione, Evan le riservò uno sguardo indifferente. «Cioè?»

«Sai cosa intendo.»

Era un’insinuazione sottile, ma facile da cogliere. «Non ti facevo così subdola. Ci stai provando ancora, vero? Vuoi provare a farmi cambiare idea usando Dorcas.»

Evan ripensò al giorno della cerimonia d’addio, al modo in cui Alisia lo aveva cercato, comunicandogli che non si sarebbe arresa. Ciò significava che era pronta a tutto. E quell’esternazione ne era la riprova.

«Se incitarti a usarla può servire, allora sì.» Alisia si strinse nelle spalle, poi frugò nella borsetta che teneva poggiata in grembo. Tirò fuori un po’ di monete – oro, argento e rame – e le contò. Le posò sul bancone, proprio accanto al bicchiere. «E poi non è fatta di vetro. Saprà come tenerti testa.»

Ne aveva viste tante da parte di Alisia Prewett, ma questa gli era nuova. «Non ti facevo simile a Rabastan. A quanto pare, ho fatto male i miei calcoli» sussurrò Evan, continuando a osservarla.

La reazione di lei fu prevedibile: serrò i pugni e gli si rivolse con fredda irritazione. «Gradirei non essere paragonata a quello stronzo, Evan.»

«… ma ci sono cose che non cambieranno mai.» Esternò quel pensiero a voce e Alisia lo scrutò con espressione confusa. «Lascia perdere.» Finì il proprio succo di bolle e lasciò qualche falce a Tom. «Devo andare. Immagino di dovermi… divertire, come mi hai consigliato.»

O come mi ha consigliato Rabastan.

Era una frase fredda, volta a irritarla, ma Alisia non si scompose. Lo seguì fuori dal locale, fino al muro di mattoni che conduceva a Diagon Alley. Smossi questi e aperta la via, Evan notò a pochi metri di distanza la figura alta e riconoscibile di Sirius Black.

Se ne stava a braccia conserte poggiato contro il sellino di una motocicletta Babbana. I suoi capelli erano più lunghi dell’ultima volta in cui l’aveva visto e li teneva legati dietro al collo. La sua espressione era guardinga e per nulla sorpresa nel vederli assieme. Black sapeva perché Alisia era lì. Con ogni probabilità, era stato lui ad accompagnarla. E qualunque pensiero covasse in merito, era evidente fosse tutt’altro che positivo.

Alisia si fermò. «Direi che è tutto. Mi ha fatto piacere rivederti. Spero ricapiti.»

Fece per dire altro, ma Evan le si accostò, brusco. «Cosa ti fa pensare che funzionerà?» domandò a bruciapelo, bloccando il probabile saluto che lei era stata in procinto di rivolgergli. «Non credo che Dorcas ti abbia parlato positivamente di questa relazione.»

Era nata coi presupposti sbagliati. Dorcas doveva saperlo.

«Io non penso che funzionerà, Evan» rispose Alisia, addolcendo lo sguardo; c’era un guizzo di tristezza del verde e blu delle sue iridi. «Ci spero, però.»

Poi sollevò una mano per salutarlo e raggiunse Sirius Black.

Evan li osservò partire. La motocicletta si infilò sgommando nella zona più a sud di Diagon Alley, condotta con sicurezza dal suo proprietario, e il rombo del suo motore colmò il vuoto che le parole di Alisia lasciarono dietro di sé.

 

L’obiettivo non era salvare solo Evan Rosier, ma anche Dorcas Meadowes. E per farlo, Alisia doveva giocare sporco e mettere da parte le indulgenze. Se spingere Evan a desiderare Dorcas le avesse consentito di salvarli, allora lo avrebbe fatto. Anche se era sbagliato.

 

27 luglio 1978

La Stella (Preludio) – Alisia

Una mossa azzardata. Non pensavo avresti mai riferito dei marchi a qualcuno. Significa che vuoi andare a fondo della questione. Sirius ha fatto un’ottima opera di convincimento.

La Morte le vagava attorno mentre consultava il libro sui Marchi Magici che Dorcas le aveva portato agli inizi di luglio. Vi si era immersa dal primo giorno, leggendo ogni singola storia contenuta tra quelle pagine. Molte erano irrealistiche – si parlava di marchi in grado di Materializzare una persona verso la propria anima gemella, ovunque essa si trovasse – mentre altre presentavano elementi che si sposavano perfettamente con la condizione in cui versavano lei e Sirius: condivisione di sentimenti, dolore e piacere fisico, intuizione dei pensieri, rilevamento della presenza dell’altro a pochi metri di distanza.

Ve n’era persino una che tirava in mezzo la Morte.

Alisia sollevò la testa e inspirò. Faceva un caldo tremendo nella sua stanza, anche se aveva provveduto a rinfrescarla con innumerevoli magie. L’unico sollievo le era dato dal sacchetto del ghiaccio che si spalmava addosso ogni secondo e che ora le giaceva immobile all’interno della coscia destra. Morte, perché non ci hai detto di queste leggende? Quanto c’è di vero?

Ciò che mi riguarda ha qualche parziale fondo di verità, ammise la Morte, vaga. Incontrai una ragazza con un marchio visibile solo a me. Vidi delle tracce interessanti, che cercavano un collegamento con un’anima affine. Seguii la ragazza finché non morì. Fece una pausa. C’era di curioso che la sua anima, in principio, non presentava marchi. Quell’essenza si palesò alla sua nascita e rimase alla sua morte.

Hai quindi capito che occorreva del tempo al marchio per svilupparsi?, domandò Alisia, sdraiandosi. Afferrò il sacchetto del ghiaccio e se lo posò sul collo, sospirando di sollievo. Spinse via il libro e cercò di tenere a mente di essere arrivata a pagina 214. Quasi a metà.

Esatto. Anche se non comparve mai sulla sua pelle, prese forma e lì restò, una presenza fantasma per qualcosa di infinitamente grande. Magia antica ma soprattutto rara. Il primo caso di Marchio Magico.

Alisia si morse le labbra, tanto da farsi male; un lieve bruciore l’avvertì di un possibile taglio. Tirò fuori la lingua e la passò sulla carne ferita, percependo il sapore ferroso del sangue. E come sapevi delle potenzialità del marchio? Se era la prima volta che lo vedevi…

Le intuii. La magia antica è insolita e voi umani avete la straordinaria capacità di creare la bellezza dal nulla, replicò la Morte, divertita. Nacque con lei e tramite lei causò una vibrazione magica, che rimase nell’aria persino dopo la sua morte. Alcuni secoli dopo, nacque un ragazzo che sviluppò la sua stessa essenza.

Erano parenti?, domandò Alisia, cercando di collegare i fili. Dorcas le aveva accennato potesse essere una magia trasmessa per discendenza. Dava anche per scontato che la ragazza del racconto non fosse morta giovane per mano del suo amante. Se c’era una cosa che la storia dei tre fratelli aveva insegnato ad Alisia, era che non sempre le storie riportavano tutta la verità.

Più romanzato era un racconto, meglio sarebbe stato veicolato e amato.

La Morte emise un sospiro. Trova da sola la risposta.

Lo prese per un sì.

Quindi io e Sirius abbiamo degli antenati in comune, commentò Alisia, pentendosi di aver abbandonato la storia dei marchi per sfinimento. Se Sirius non l’avesse convinta a proseguire le ricerche, non avrebbe mai scoperto di quella branca sconosciuta della magia. Dorcas avrebbe venduto il libro sui Marchi Magici e sarebbe risultato complesso venire a capo della verità. Morte, credi che Black e Prewett si siano incrociati altre volte, in passato? Escludendo Lucretia e Ignatius...insomma, magari si tratta di qualche altra casata che ha incrociato queste due famiglie, ma sarebbe interessante se fossero state legate anche in altri secoli, no?

Non le venne concessa una replica, ma soltanto un verso annoiato.

Alisia aggrottò la fronte. Deve essere per forza così, Morte. Altrimenti…

Si interruppe. Uno strano pensiero la fece balzare a sedere. C’era qualcosa che non tornava. No, aspetta un attimo. Io avevo il marchio anche nell’altra vita, vero? E anche Sirius. Hai sempre detto che era destino che io lo incontrassi. Quindi dovevamo averli per forza.

La Morte rimase in silenzio.

Rispondimi, la esortò. «Pensi che prima o poi non scopriremo la verità? Anche Dorcas, ora, ha deciso di aiutarci; e penso proprio che ne parlerò anche con Regulus, quando finirà gli studi. Abbiamo molti indizi. Dall’estate scorsa, in effetti» mormorò Alisia, sentendo la propria voce affievolirsi man mano che le rotelle nel suo cervello si incastravano le une con le altre, aumentando il ritmo e dando forma alle ipotesi.

Solo che ne emerse un’immagine piuttosto vivida di Sirius. ‘Per caso… e questa è solo un’ipotesi… è possibile che Alice fosse collegata alla famiglia Serra?’

Una domanda innocente, formulata in spiaggia dopo una lunga conversazione su Alice e Wren, che si era persa tra le mille congetture di quegli anni.

Alisia spalancò gli occhi e per poco non lanciò il sacchetto col ghiaccio sul pavimento. «Alice aveva davvero dei parenti maghi!» strillò, ringraziando Sirius per la dritta.

Antenati da parte di entrambi i genitori, rispose infine la Morte, indolente. Come li hanno molti Nati Babbani. L’unica sfortuna di Alice è stata nascere senza magia, quindi era incapace di far spuntare il suo marchio, anche incontrando Sirius.

Colta da una fretta quasi febbrile, Alisia si gettò verso il baule e lo aprì. In ginocchio e con le mani affondate tra i suoi mille libri e appunti, andò a scovare quelli che riguardavano Alice e la sua famiglia. Tirò fuori anche la boccetta con tutto ciò che riguardava il suo passato amore e fissò il liquido che vorticava argenteo tra le sue pareti di vetro.

Per anni aveva ignorato il proprio passato. Paura, odio e mestizia avevano sempre avuto la meglio su di lei. Non era riuscita in nessun modo a cambiare quella parte di sé. Si era detta che prima o poi sarebbe accaduto. Tutti cambiano, si era ripetuta. Ma forse non valeva per chi era già ben avviata nella vita. Per chi, dopotutto, una certa età l’aveva già avuta, dovendo quindi accontentarsi di ammorbidire gli angoli, rendendoli meno spigolosi.

Sono una sottospecie di anziana destinata ad avere un brutto carattere o rabbonirsi, pensò divertita, prima di tornare seria e rimirare la boccetta. La fece ondeggiare tra le dita, percependola fredda – non era condizionata dalle temperature inclementi dell’estate –, dopodiché si rimise in piedi e le tolse il tappo.

Fece scivolare il contenuto a terra.

Una decisione saggia ma pericolosa, commentò la Morte, degnandosi finalmente di prestarle attenzione. Pareva che la sua più grande debolezza fosse la curiosità.

Combatterò i miei incubi, rispose Alisia, richiudendo la boccetta. Attese che i suoi ricordi evaporassero ed emise un respiro tremolante. Ho bisogno di capire la storia di Alice. E ciò comprende Ian e Oliver.

Pensi che così scoprirai cosa vi nascondo?, domandò la Morte, nel tono qualcosa di molto simile al divertimento. Sai, devo ammettere che avervi ricollocati mi sta rinvigorendo. Era da secoli che non venivo sfidata a questo modo.

Il terzo fratello?, domandò Alisia, abbozzando un cauto sorriso.

Fu molto tenace. Si assicurò di vivere il più a lungo possibile. La Morte rise all’improvviso e Alisia sussultò. Le era parso quasi che le avesse sospirato contro un orecchio, alla fine di quell’inquietante esternazione umorale. Le vostre intuizioni portano a molte strade, bambina. Dovrete trovare quella corretta. Nel frattempo, mi godrò la guerra. Consiglio anche a te di focalizzarti su di essa, poiché pretenderà ogni secondo del tuo tempo. O moriranno delle persone – e non è ciò che vuoi, o sono in errore?

Alisia ributtò la boccetta vuota nel baule e afferrò gli appunti, ignorando la Morte. Guardò il parziale albero genealogico della famiglia di Alice: i Mei da una parte e forse… forse i Serra dall’altra?

Dovevano essere loro. Per forza. Altrimenti, perché le sarebbe stata cancellata ogni memoria della famiglia materna? E i poteri di veggenza di Wren? Come si collegavano al tutto? Cosa c’era in quella linea di sangue di così importante da aver spinto la Morte a ometterla dai suoi ricordi, per di più senza avvertirla? Che nel loro albero genealogico vi fossero componenti della famiglia Black, o antenati antecedenti, com’erano stati i Peverell per i Potter e i Gaunt? Che fossero legati alla ragazza col primo marchio?

Non solo. Era evidente che per favorire l’apparizione del marchio non bastasse averne l’essenza nell’anima. Il sangue di coloro che ne avevano il… come definirlo… ‘gene’ doveva comunque esserci. Per questo la Morte si era premurata di legarla nuovamente alla famiglia Serra. Nel sangue dei Prewett quel gene non doveva essere presente. Mentre era vivo in quello dei Black.

Sapeva che prima o poi avrei scoperto del legame di Alice con la magia. Bloccando i miei ricordi e impedendomi di fare dei collegamenti, sperava forse di riuscire a rimandare questo evento il più a lungo possibile?

D’altronde, non aveva forse giocato con lei e Sirius per far spuntare la Costellazione del Capricorno sulla pelle di quest’ultimo, poiché incompleto e bisognoso di un qualche trauma per attivarsi?

Stava rimandando qualcos’altro. Qualcosa che non le sarebbe piaciuto.

Sirius darà di matto quando gli racconterò di questa storia.

Perplessa, Alisia tornò a legarsi al discorso della Morte e ai suoi toni sprezzanti. Non le era sfuggito il suo palese tentativo di cambiare argomento, volto a indirizzarla su un altro genere di priorità. Se potrò, farò entrambe le cose. Voglio sapere cosa vuoi. E se non me lo dirai tu, lo scoprirò da sola.

La Morte non rispose, anzi, sembrò decidere di svanire. La sua presenza evaporò come acqua esposta per troppo tempo alla luce del sole. Il silenzio divenne netto e Alisia si guardò attorno chiedendosi quando l’entità si sarebbe palesata di nuovo.

Visionò gli appunti e si sedette. Lucretia entrò nella stanza miagolando e salì sul letto. Le si accoccolò vicina facendo le fusa e Alisia l’accarezzò con fare distratto, gli occhi di verde e acqua persi tra i nomi della sua vita passata.

Sfiorò con le dita il nome di Ian e una fiammella le si accese nel petto, era fatta di rabbia e dolore e qualcos’altro di indefinito che doveva provenire da Alice. Amore, forse? Eppure era un sentimento lontano, che non la toccava in alcun modo, né le apparteneva.

Se le anime gemelle esistono, cos’era quel trasporto che Alice nutriva per Ian?

Secondo il libro dei Marchi Magici, o meglio della sua autrice, ci si poteva innamorare comunque di altre persone senza badare alla propria anima gemella. Non era un legame vincolante. Era potente, sì, ma non fino al punto da far annullare una persona.

Si può scegliere, come in tutte le cose.

Alice, però, aveva sbagliato. E ne aveva pagato il prezzo.

«Sai, Lucretia, penso proprio che questo sia solo l’inizio» sussurrò Alisia, abbandonando i fogli e prendendo la micia in braccio. Le sfregò il mento sulla testa e socchiuse gli occhi. «Dovremo prepararci e prevedere gli inganni della Morte. O saremo noi a soccombere.»

 

ottobre 1981

Godric’s Hollow (La Sentenza) – Lily Potter

Il suo cuore si sarebbe fermato da un momento all’altro.

Sbatté la porta e la chiuse a chiave, le gambe che tremavano, gli occhi che saettavano da una parte all’altra in cerca di un modo per fuggire. Non può. Non ora. Eravamo al sicuro. Al sicuro!

Fissò la finestra e cercò di aprirla, ma quella non si mosse. Era sigillata. L’ha chiusa lui, pensò sgomenta.

Tornò al centro della stanza e rimpianse di non avere la bacchetta. Se l’avesse avuta con sé, se non l’avesse lasciata al piano di sotto, avrebbe avuto una possibilità.

Si voltò e sentì gli occhi inumidirsi. Harry avrebbe avuto una possibilità.

Osservò il bambino guardarla dal lettino in cui lo aveva riposto dopo essere fuggita, tra i suoi giochi e la copertina in sui lo avvolgeva ogni notte. Vide il suo sguardo innocente carico d’ansia. Percepiva la sua paura, sapeva che stava accadendo qualcosa di molto brutto.

«Andrà tutto bene, Harry» gli sussurrò, sforzandosi di sorridere. «La mamma è qui con te.»

Lily prese fiato – prese coraggio – e guardò la porta. Attese.

Sperò che James fosse vivo. Che Sirius fosse riuscito in qualche modo a proteggerlo, prima di invitarla a prendere Harry e scappare, che stessero lottando per sopravvivere a Voldemort.

Si illuse. Cos’altro avrebbe mai potuto fare, se non sperare in qualcosa di irrealistico? D’altronde, nessuno poteva sperare di vivere se lui decideva di agire di persona.

Se lo ripeté fino a quando la porta, cedendo alla magia, non si aprì di colpo; e Voldemort entrò. Solo allora Lily Potter capì che Sirius e James erano morti.

 

Fine Libro I – the lovers –

1971–1978

 

Looking too closely [Libro II - The Star]

 

*mi scuso per eventuali errori – di battitura, punteggiatura, verbali etc. – poiché rileggendo mille volte sicuramente ho smesso di notare le sviste; tra qualche giorno, come sempre, darò una riletta con gli occhi più riposati e attenti*

 

– NoteSparse

1 – Evan (panoramica) | Ritroviamo Evan e le sue paturnie. Lo ritroviamo soprattutto in cerca di un’alternativa all’alcol. O meglio, di un modo per alleviare il dolore. Per rimandare l’inevitabile. Fingere indifferenza è ciò che lo tiene a galla, ma in realtà – oltre a essere abbastanza disilluso – cova un palese desiderio di vivere. Di andare avanti. E, al contempo, alimenta il suo opposto. Il gioco che sta portando avanti potrebbe ferire Dorcas. Potrebbe ferire lui. E far arrabbiare le persone sbagliate. Lascio il resto delle analisi a voi. Immagino che ci sia molto da dire, di qua e di là.

Tramite lui scopriamo, tra l’altro, che la relazione tra Robert e Benjy ha avuto inizio. Se ve lo chiedete, ho intenzione di parlarne in un capitolo della raccolta I Unravel Myself. Che, tra parentesi, verrà finalmente aggiornata la prossima settimana, proponendoci l’inizio della storia tra Regulus e Marlene.

2 – Dorcas (panoramica) | Con questo capitolo, vediamo intanto spiegata la situazione dell’oro che Dorcas e i Lestrange si scambiano. Quindi abbiamo la chiusura parziale di questo mistero, sebbene sia ancora ignoto il modo in cui Cassandra ha convinto il padre di Rod e Rab a fare un Voto Infrangibile. Voto che costringe Rodolphus a non torcere un capello alla famiglia Meadowes.

Inoltre, vediamo a sapere che Cas ha iniziato una relazione con Evan il giorno di Pasqua. Quindi ha tenuto nascosto quel rapporto fino a che Alisia non le ha rivelato dei Marchi (ci torneremo). Dorcas sarà quindi parte attiva nel svelare la storia dei marchi.

La vediamo anche essere tenuta alla larga dalla famiglia Rosier, e ritroveremo questa situazione nel Libro II. Posso solo dire che, come accenna lei stessa, ora come ora è meglio così… (non si illude su Evan, anche se vorrebbe).

3 – Alisia (Preludio – The Star) | Qui abbiamo tanto di quella carne al fuoco, che oh, hai voglia tu a parlarne. E per la cronaca, ‘sta cosa andrà avanti fino al Libro III, dove avrà una risoluzione definitiva (d’altronde, il titolo del Libro III è The Death).

Scopriamo che Alice probabilmente era una Serra da parte di madre, proprio come Alisia.

Vediamo la conferma che i Marchi Magici sono magia antica, e che quindi è roba sì random, ma che si risveglia nei maghi col gene (così random che è paragonabile alla possibilità in versione rarissimissima di diventare Metamorfomagus; se il gene c’è, bene, se non c’è, grazie e arrivederci, se ne riparlerà quando capita). Scopriamo quindi che è presente nei Black e, a fare due più due, nei Serra. Ma non nei Prewett.

Indi per cui, Alisia è stata piazzata nei Prewett non solo per collegarla a Gideon e Fabian, ma anche per restituirla alla linea di sangue dei Serra. Ciò significa pure che Black e Serra hanno antenati comuni. E che la Morte avrebbe pure potuto inserirla nella famiglia Black, cosa che non fa per motivi che poi verranno rivelati (furba lei).

Tutto ciò si lega al piano della Morte. Ha fatto sì che Sirius e Alisia si incontrassero. Ha creato i presupposti affinché tutto fosse perfetto. A che pro? Lo scopriremo… è tutto scritto nella storia dei Serra e dei Black.

In ultimo: la conversazione con Evan Rosier. Sì, avete letto bene quella parte. E no, Alisia non sta giocando. Per salvare Evan, ma ovviamente anche Dorcas, è disposta a indurre Evan a fare scelte anche meschine. Sono ovviamente entrambi conspaevoli dei motivi. Starà a Evan fare i conti con l’invito di Alisia.

4 – 1981 (Lily Potter) | Io so che così sono stata un po’ bastardella, ma il Libro I si chiude cosí.

 

Note dell’Autrice –

E qui si chiude il Libro I. 80/80. Tondi tondi. Questa prima parte è nata nel 2018 e si è conclusa nel 2024. Se non avessi avuto i miei problemi – ed erano tanti – la Parte I forse si sarebbe conclusa anni fa. Viste le tempistiche – ci ho messo 1 anno e mezzo a scrivere 62-63 capitoli – questa storia sarebbe potuta finire verso la fine del 2019 o anche prima. Però, ecco, io penso sia meglio così. Mi sento più sicura col mio modo di scrivere attuale, ecco, anche se non sono – ripeto – Stephen King e quindi faccio schifino. Però mi impegno. Nello schifo mi impegno *pollice in su*.

Tornando a noi.

Da qui in poi, vi darò alcune notizie rapide rapide.

Looking too closely [Libro II – The Star] inizierà giovedì 3 ottobre 2024. Sì, mi prenderò una pausa per scrivere e ricaricare le batterie. Come avrete notato, sono passata dal pubblicare il mercoledì, a slittare al giovedì. Sono un po’ esaurita e necessito di tempo. Poco, eh, sono le mie ferie queste. Tornerò. Posso solo dirvi che 20 capitoli sono già pronti. 20 su 50 [Libro II]. Potrebbero aumentare e diventare 60, ma per il momento sono 50 totali (la timeline della Rowling è una roba allucinante con 948324 morti, arresti, sparizioni, personaggi – e qui abbiamo dieci pov, ragazzi miei, con relative storyline, appunto per seguire da vicino le trame dei Rosier e dei Lestrange).

– Questa storia, cioè il Libro I - The Lovers, verrà segnalata come COMPLETA. Come avevo già detto, ci sposteremo in una nuova storia. Avevo già spiegato i motivi nelle note del precedente capitolo, che vi invito a leggere se non l’avete già fatto. Inoltre, vi ricordo che verranno aggiunte scene con Alphonse e Dorcas tra il II e il IV anno, che vi segnalerò poi nel Prologo del Libro II (quindi a ottobre).

I Unravel Myself verrà aggiornata: ? settembre (Regulus e Marlene, capitolo tre | edit 10 settembre - pubblicazione rimandata a data da destinarsi, ho il covid e sto uno schifo 😭); il 29 ottobre (Levorian e Candace, capitolo quattro); e il 29 novembre (Evan e Ophelia, capitolo cinque). Malandrino mi aveva chiesto anche una storia su Lily e James, che avremo come capitolo sette. Il capitolo sei lo riserverò a Robert e Benjy (ciò significa che la storia Jily sarà ambientata durante il Libro II, yes).

Vi invito a commentare i capitoli su Gideon e Rabastan, se non l’avete fatto. Sono presenti anche su Wattpad e AO3.

Voglio ringraziare, arrivata a questo punto, tutti coloro che hanno recensito, anche solo una volta. Così come mi sento in dovere di ringraziare le – circa – 150 persone che hanno inserito questa storia nelle loro liste (facendo una somma complessiva e levando chi ha inserito la storia in più liste). Vi ringrazio per aver letto, commentato e mostrato il vostro supporto. Cercherò, andando avanti, di fare del mio meglio e migliorare, nella speranza di regalarvi bei capitoli e – si spera – una bella storia (almeno nel suo complesso).

 

Ringrazio (come di consueto e a chiusura della storia) J95Stark e Spensieratezza per aver recensito il precedente capitolo! E ringrazio Malandrino 01 che so con certezza recupererà i capitoli mancanti. Ragazzo, ormai sei diventato come un nipotino, anche se lo leggerai qui e mai te lo dirò altrove, lol. Ultimo ringraziamento per Starlight1205, che ha recuperato pian piano la storia, recensendo capitolo per capitolo, ed è quasi in pari. Grazie per il sostegno, le bellissime parole e la dolcezza. Spero tu riesca a scrivere il seguito di Black Hole come vuoi, senza pentimenti o problemi *augura tanta ispirazione* *e comunque Diana e Fred mi mancano, rivoglio i patatini u__u*

EDIT – Ho notato che state spostando la storia dalla lista delle Seguite a quelle di Preferite/Ricordate: ringrazio quindi anche voi. Aggiornerò i numeri delle liste qua, ogni tanto, per tenere traccia dei movimenti: Seguite: 83 | Ricordate: 19 | Preferite: 61.

Già che ci sono: vi ricordo che potete lasciare un kudos alla versione presente su AO3, oppure votare i capitoli della versione di Wattpad! (che tra l'altro è vicina alle 1000 stelle!) :)

Sì, siamo giunti ai saluti.

Ci rivedremo a ottobre, col Libro II! Nel frattempo, vi mando un abbraccio e vi auguro di trascorrere in pace e serenità il resto dell’estate! Alla prossima,

 

Mokochan

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