Chapter Text
1. Gocce di memoria (4:08)
Siamo nella stessa sorte
Che tagliente ci cambierà
Aspettiamo solo un segno
Un destino, un'eternità
(Giorgia, Gocce di memoria)
Dice a tutti che non gliene frega un cazzo di niente – che poteva perdere un braccio, una gamba, divenir cieco, sordo, muto o forse persino più scemo di quel che si crede (o lascia vedere): Elia dice a tutti che non gliene frega un cazzo, che è più per lo sbatti di sorbirsi un altro anno di liceo che per altro, non è la fine del mondo. Solo che non ne è nemmeno l’inizio, ma come fai a dirlo?
Che gli pesa, quel mondo infinito e non iniziato, nascosto nella tasca esterna dello zaino assieme a un accendino dalla fiammella timida e un pacchetto di fazzoletti talmente incartapecorito da poter essere usato per mummificare una salma. Gli pesa, perché c’ha quell’età in cui ti pesano le cazzate, figuriamoci le cose serie – e doversi trascinare dall’ora di italiano a quella di filosofia senza una pausa, senza una canna, sobrio, senza musica, senza niente: doversi crogiolare in quella consapevolezza, sbagliata e annichilente, che il mondo non è finito insieme a lui (che nemmeno è iniziato).
Forse pensava, con quella presunzione un poco scanzonata che s’è dipinto addosso come il make-up sbavato della sera prima dell’ennesima ragazza che ha approcciato a una serata, che il dolore fosse meno liquido dell’acqua. Ma, quand’ha dovuto venire a patti con la consapevolezza che anch’esso assume la forma del contenitore in cui viene versato, s’è dovuto arrendere: c’è memoria anche nel dolore, esattamente come nella coca cola o nel succo d’arancia, nel caffè e in qualunque altro liquido che decida improvvisamente di cambiare recipiente – che è quello che lui cerca di fare, spasmodicamente: muovendo le zampe alla cieca come un ragno rovesciato, Elia ci prova, per davvero, a tirarsi via da quella vita rimpicciolita da un lavaggio sfortunato in lavatrice.
Ma, come un calzino spaiato ingoiato dal tubo di scarico, non si trova: puoi cambiare casa, puoi cambiare vita (o comportarti come se lo stessi facendo), puoi cambiare modo di pensare, amici, dieta, sport preferito. E riusciresti comunque a non cambiare quello che sei.
Ci ha provato, lo sa, ci ha provato per davvero – avere la pretesa di cambiarsi scegliendo un taglio di capelli diverso, cambiando giacca, andando in bici e non a piedi. E scoprire che, nonostante tutto, non c’è niente da fare e lui è ancora lì.
Gliel’hanno chiesto. Giovanni, Martino, Luchino, Eva – perfino Silvia, Federica, anche Sana ha alzato il sopracciglio con aria corrucciata, che forse era un gesto più sonoro delle parole ed è anche stato quello che, ad Elia, le parole le ha tolte in maniera definitiva. Ha riso, alzato le spalle, zì guarda che a me non frega proprio un cazzo.
E chissà se gli hanno creduto o hanno semplicemente lasciato correre per amor di tranquillità, quando Elia ha scrollato le spalle come per dire che, alla fine, rifare la maturità non è poi tutta sta gran cosa. Ci hanno provato, timidamente, a chiedergli perché – ha risposto sistematicamente, freddamente, che non tutto ha un perché. Soprattutto, non lui.
Non lo ha detto a nessuno.
Ha passato l’inverno a congelarsi le costole con il cuore che si ghiacciava nella bora dei suoi stessi pensieri, d’estate fa ancora un freddo cane e lui, che il caldo lo aveva amato, adesso non sa nemmeno come fare a rimpiangerlo. Gli hanno detto che diciannove anni è un poco pretenzioso, pensare di potere avere dei rimpianti (ma se muori a venti?)1.
Se muori a venti sono cazzi tuoi, che ne sai, è che la gente sta morendo ogni giorno a velocità diverse: non che sia novità, si è sempre detto, come mamma che ha camminato per tutta la vita e poi, tutta in un colpo, ha deciso che era il momento di iniziare a correre.
Quand’aveva cinque, sei, sette e poi direttamente quindici e sedici anni, sua madre non gli ha mai detto di non correre, che poi ti fai male. Non correre, però, perché alla fine la strada dovrà pur finire da qualche parte, o no?
Mamma gli ha insegnato a non avere paura di farsi ferire – c’è qualcosa che non ti ferisce, in questo mondo? – dalla sabbia che scrocchia sotto la suola delle scarpe e, per questo, quando era venuto il giorno condito a fiori e pioggia al sapore di crisantemo, non aveva realizzato. Che passi tutta la tua vita a credere che le cose brutte accadano nei libri che sei costretto a leggere durante le vacanze estive, o magari in quei film che fanno piangere la tua ragazza il giorno di San Valentino, nelle telenovelas che guarda nonna a orario pasti, nelle pagine spiegazzate dei giornali o nei tabloid online, di sottofondo nel telegiornale quando papà fa zapping dopo pranzo e commenta che non c’ha proprio voglia di TG, il mondo è già brutto nell’inconsapevolezza, pensa un po’.
Passi tutta la vita a credere che possa succedere alle fotografie patinate dei giornali, magari all’amico dello zio del cugino del portiere di casa della migliore amica della ragazza del tuo compagno di banco alle elementari, puoi perfino arrivare a concepire la possibilità che succeda a qualcuno che conosci e inizi anche a dire che la vita è una, va vissuta pienamente, da domani. Ma domani cosa, cazzo?
E succede a te che manco ti rendi conto – Elia lo sa: sente il peso dei passi di sua madre che si sono attutiti in casa e poi sono prima spariti e poi rimpiazzati da scarpe da lavoro, da tribunale, scarpe nuove, conservate nella scatola di cartone e con la carta dentro, scarpe lucidate il weekend e la suola consumata, prese a prezzo pieno in un negozio in centro. Sente che il tempo viene calciato via dai colpi di tacco di quella scarpa, e il tacco non si rovina o scolla mai, e per quanto lui possa venire a patti con la sua impossibilità di realizzare che è toccato a lui, questa volta, non ci riesce.
Che quei passi fanno troppo rumore e, quando nelle impronte invisibili lasciate in casa cerca di leggervi delle parole, scopre sempre che non gli è rimasto nemmeno un brandello di ricordo.
***
Sulla sabbia, impronte bagnate.
Pensa che l’acqua dovrà cancellarle ma, se qualcuno continua a vagare per la spiaggia come un’anima tormentata, allora, si può davvero dire che anche la sabbia (al pari di quel mare che non si può mettere in bottiglia) sia in grado di dimenticare?
Il giorno in cui Elia deve prendere lo zaino, ficcato in lavatrice meno di quarantott’ore prima per l’occasione e per una mela imbalsamata dimenticata sul fondo in tela chissà quante ere prima, e rimetterci dentro quaderni, libri, una penna con il tappo mangiucchiato e tutta l’esasperazione che gli è cresciuta tra le vertebre come cartilagine o colla a presa rapida, è mercoledì. Che è pure un giorno di merda per cominciare scuola, già è un giorno di merda di per sé, che non dà niente e che non sa di niente, figuriamoci per tornare indietro nel tempo – e scoprire che, nonostante tutte le sue pretese in merito, non è cambiato un cazzo.
Che, sulla pelle, ci sono ancora le stesse cicatrici: può dimenticarsene, fare finta che non ci siano, ma il tatto ha più memoria degli altri sensi e, a tentoni, Elia si conosce a memoria. Ogni scanalatura, imperfezione, lo scalino delle scapole un poco alate.
Si conosce a memoria per tatto, per memoria e per esasperazione. Che quando cerchi di dimenticarti come sei fatto, allora, ogni dettaglio ti ritorna in mente in tinte cupe. A volte blu, altre viola.
Non gliene fregava un cazzo del primo giorno di scuola nemmeno quando non pesava in questa maniera, l’idea di doverci tornare, a scuola, non gliene fregava un cazzo perché finire è molto più emozionante che cominciare. Solo che lui, le cose che hanno un termine, le cose che non vengono troncate a metà ma dolcemente fluiscono al punto fermo e basta, non sa cosa siano.
Ha detto ad Emma che gli sta bene così: che non è che abbia poi tutta questa voglia, a diciannove anni, di mettersi a credere nell’amore, non è che sia piacevole pensare che ogni cotta un poco sfortunata (e qualcuna che avrebbe potuto sfumare in lieto fine) sia quella lì, quella che è anche l’ultima. Allo specchio, che sono gli occhi dei suoi amici, Elia ride e dice che s’innamora a sere alterne, per un paio di ore e basta così.
Mi piaci molto, mi piaci, non mi piaci più – non dice, non lo dice mai, non lo dice ai suoi amici e non lo dice ad Emma e non lo dice nemmeno a suo padre (figuriamoci) e forse non lo avrebbe detto nemmeno a sua madre, sicuramente lo tiene per sé quando Filippo indaga con l’aria di chi non ha voglia di farsi i cazzi propri, non lo dice nemmeno a sé stesso allo specchio quando si deve domandare perché io.
Deve fare l’inventario di tutto quello che si è dovuto lasciare alle spalle dicendo che non aveva importanza, tutte le volte in cui ha detto a qualcuna ch’era bella e lo era per davvero, anche quando si trovava a spiegare che la bellezza non basta. Non basta, sì, lo sa.
Lo sa quando Emma gli lascia la propria bicicletta e, candidamente, gli confessa che ha passato l’estate a inghiottire salsedine e qualche granello di delusione: ci è rimasta male, gli dice, ci è rimasta male perché, a dispetto di quel che tutti dicono su di lui, un poco ci sperava.
Avrebbe voluto dirle: sai quante cose ho dovuto abbandonare, anche se ci speravo, nel miracolo, anche se ci speravo per cinque minuti, per un quarto d’ora. Che ci aveva sperato anche lui sì, un casino, ma con la speranza non ci fai mai un cazzo di niente e lui lo sa bene.
Così aveva scrollato le spalle e candidamente aveva ammesso di non avere più alcun residuo di fiducia per i propri sentimenti – Emma non ha domandato, gli ha detto buona fortuna e gli ha lasciato un bacio sulla guancia, luminosa di comprensione: non ha menzionato Sana nemmeno una volta ma, silenziosamente, avrebbe voluto dirgli che è comodo anche così.
Ti scegli quella che non puoi avere per lei o per quel che potrebbe significare, Elia lo sa bene, ti scegli quella che vorrai sempre disperatamente perché, per quanto tu disperato possa essere, non ti guarderà mai.
(Chissà se lo vorrebbe).
Ha detto a Martino che non gliene frega un cazzo di Emma perché, alla fine, potrebbe avere di meglio: lo ha fatto ridere ma, giocherellando con il colletto abbottonato della propria camicia, avrebbe voluto dirglielo – non ci ha creduto fino in fondo: che un poco lo sa, Martino, come ci si sente a mentire per inerzia, a mentire per nascondere quella sensazione che ti bucherella la bocca dello stomaco. Prendi un bacio, coraggio, te lo regalo.
Gli dice che sta aspettando. Qualcosa di meglio, o forse un segno, un miracolo, qualsiasi cosa – Martino coglie solamente la prima parte del discorso e ride, qualcosa gli graffia la voce mentre sussurrando gli dice che non cambierà mai, e come potrebbe farlo.
Elia ride, per finta.
Qualche volta, quando Martino scherza e gli dice che il prossimo è lui, Elia ride e pensa che quel gesto potrebbe anche spaccargli la faccia. Ma, per quanto possa pensarlo, non smette nemmeno di farlo.
Vorrebbe essere in grado di spiegargli – per davvero – vorrebbe essere in grado di dire a lui, o a Giovanni, o a Luchino perché non riesca a fare i conti con il fatto che tutti provano sentimenti. Anche lui.
Si è tatuato il conto dei suoi giorni persi, spine sui polsi, e adesso che sanguina gocce d’inchiostro simpatico, Elia vorrebbe davvero saperlo spiegare: che non crede nella predestinazione, probabilmente nemmeno nell’amore a prima vista, nel merito.
Te lo devi meritare, quell’amore, te lo devi costruire – con lo scampanellio di una bici che taglia la strada alle macchine, come se non gliene fregasse un cazzo per davvero, la catena oliata male ed Elia che non sa come fare a convincersi che, forse, lo merita lui.
***
Dice che non è uno che si piange addosso – serio, non me ne frega un cazzo, zì – e semplicemente non ci danno mai da portare pesi che siano più pesanti di quello che siamo in grado di sopportare: ed Elia, che sbuffa tra una lezione e l’altra sciacquandosi via dal viso la noia e l’abitudine che gli portano quelle serate tutte uguali, quelle mattine fotocopiate a inchiostro nero (magenta terminato, compra una cazzo di cartuccia nuova) un poco sbavato, quei pomeriggi passati per inerzia e per mancanza di voglia. Non si piange addosso, dice, ma vorrebbe farlo (qualche volta).
Giovanni, che forse ha intuito la sua insofferenza nel constatare che il mondo continua a girare anche quando qualcuno è costretto a rimanere fermo, gli ha detto che non fa niente, che le brutte cose passano, si recuperano e – che forse potrà dire anche che non gliene frega un cazzo, a lui, di essere rimasto indietro quando tutti loro correvano avanti, ma lo sanno. E lo sa lui, lo sa Luchino, ma lo sanno anche i Martinico, lo sa Eva, lo sanno perfino Silvia e Federica, anche Sana, che lui avanti non c’è andato manco per un cazzo.
E Giovanni, che chi gliel’ha detto che è sensato credere nel destino scritto sui fondini di caffè prima di entrare a lezione, gli dice che forse doveva essere così ed è un segno, o un indizio, quello che il mondo sta cercando di trasmettergli. Lo chiamano eterno ritorno, no?
Elia scrolla le spalle e gli dice che sono una manica di immani cazzate, punto e basta: che a nessuno gliene frega niente, dell’eterno ritorno, del destino o di quello che è. E lui non lo sta cercando, un segno, e se anche lo trovasse come farebbe a rendersene conto?
Così, semplicemente si adegua all’idea di dover ricominciare da zero qualcosa che aveva terminato (quasi) e imbraccia la cartella per sedersi al penultimo banco, vicino alla finestra: che forse perfino il tempo, da qualche mese a questa parte, ha smesso di scorrere come dovrebbe e lui è sempre lì che non sa come fare a spiegarlo agli altri.
Non che voglia farlo per davvero – dire che ha perso tempo, che non c’è modo di recuperarsi in quella visione senza senso e senza scopo in cui è sempre troppo poco. E forse lo vuole, lo vuole sì, quel segno, quell’indizio che cerca tra i cartelloni pubblicitari in centro, nella bacheca degli avvisi a scuola, perfino tra i primi voti che cominciano a fare capolino sul registro elettronico: sei, sei, ma cosa sei veramente?
Sei la bustina di zucchero accartocciata che Martino continua a tormentare, con aria annoiata, mentre gli racconta delle prime lezioni, dello sbatti di non avere una vera e propria routine con lo studio, e dei colleghi, di Niccolò che ora sta finalmente meglio, che. Che c’è un mondo da scoprire fuori dalla classe del liceo e non gli è stato precluso, solamente posticipato.
«Hai sentito?».
Si riscuote dal torpore in cui si era rannicchiato, nascondendosi, il cucchiaino per il caffè amaro appeso tra le dita.
«Cosa?».
«Pare che Eleonora sia tornata» commenta Martino, scrollando le spalle. «Anche Edoardo».
«La fine del sogno americano?» domanda Elia, alzando un sopracciglio. «Strano, Filo non ha detto niente».
Martino ride, posa la bustina di zucchero bucata, inclina un poco il capo con fare cospiratorio prima di metterlo al corrente della notizia del secolo.
«Vanno a vivere insieme, pare».
Lo fa sorridere, che ci siano ancora persone in grado di costruirsi quelle storie da serie tv, quando lui ancora gira in bicicletta alla ricerca di un segno divino: eppure, ne è circondato e sono tutti felici da far schifo – e lui ancora si deve scalcinare via dal cuore tutte le delusioni che si è inflitto per sua volontà (tranne una).
Non gli risponde. Che vorrebbe chiedere se i prossimi saranno Giovanni ed Eva o Sana e Malik, ma teme così tanto quella risposta che, alla fine di tutto, non gli chiede niente, anche se sa che non è possibile (e potrebbe comunque essere quel segno che vuole e teme così tanto).
«Tu, a scuola?» domanda Martino, spingendo via la tazzina vuota. «Hai conosciuto gente interessante?».
Scrolla le spalle, non risponde.
Come fai a dire a uno dei tuoi migliori amici che non ti serve a niente, conoscere gente interessante, se poi devi lasciarla andare per forza?
This is the sign you’ve been looking for.
(Writober2022, lista PumpNEON, Day1)